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Vino al metanolo – I grandi processi d’Italia

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(@paolo-remer)
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Il vino killer uccise o rese ciechi molti italiani che lo avevano acquistato nei supermercati: la responsabilità della cantina Ciravegna che lo aveva adulterato per un facile guadagno, il contraccolpo per l’intera economia italiana, la rinascita del settore vitivinicolo.

Siamo a Milano, negli anni Ottanta, e precisamente nella primavera del 1986. Sono gli anni della Milano da bere, ma qualcosa va storto e diventa tragedia: intossicazioni che colpiscono decine di persone con preoccupanti sintomi, come fitte al ventre, convulsioni e cecità improvvise. La strana epidemia si estende all’intera Lombardia, poi colpisce il Piemonte, la Liguria e molte altre regioni italiane.

Le lesioni personali diventano mortali in 23 casi. Gli intossicati sono 153, e tra questi 15 persone restano perennemente cieche. È la scandalosa vicenda del vino al metanolo, che ancor oggi viene ricordato come uno dei grandi processi d’Italia, per le ripercussioni che ha avuto sull’intera economia italiana, ponendo drammaticamente il problema della sicurezza alimentare.

Metanolo nel vino: lo scandalo

Una, due, dieci, cento e più diagnosi di avvelenamento per persone ricoverate in vari ospedali italiani, inizialmente senza un filo comune che leghi tra loro i vari episodi. Il fenomeno dilaga in poco tempo: i gravi sintomi presentati dai pazienti sono sempre gli stessi, in diverse parti d’Italia, ma non si trova la causa scatenante, il filo conduttore che lega questi fenomeni. Ma dopo il disorientamento iniziale, la diagnosi diventa chiara: tutte le vittime avevano bevuto vino avvelenato dal metanolo.

Gli inquirenti scoprono presto che erano state messe in commercio enormi quantità quantità di vino contaminato da questa sostanza etilica, che è estremamente nociva all’organismo umano; a differenza dell’etanolo, che è normalmente presente in molte bevande alcoliche e non provoca danni alla salute.

Vino killer: i responsabili

La ricostruzione della lunga catena commerciale rivela che il vino killer proviene da un’unica cantina produttrice: quella della ditta Ciravegna, in provincia di Cuneo, che all’epoca aveva un giro d’affari di oltre un miliardo di lire all’anno e riforniva molti commercianti italiani, quasi sempre inconsapevoli della nocività delle sostanze contenute nel vino, e che quindi vendevano normalmente il prodotto ai consumatori, che trovavano le bottiglie esposte negli scaffali dei negozi.

Dopo i primi tre decessi, scattano gli arresti per i titolari dell’azienda ed anche nei confronti di altri personaggi coinvolti, come autotrasportatori, grossisti ed anche alcuni commercianti, che erano a conoscenza della presenza nel vino di sostanze adulterate e pericolose per la salute umana.

Si scopre che i Ciravegna, padre e figlio, nei mesi precedenti, avevano “tagliato” il loro vino con una quantità di metanolo di due tonnellate e mezzo, per poi rivenderlo a un’altra ditta, in provincia di Asti, che lo aveva imbottigliato e commercializzato su larga scala in molti supermercati e negozi italiani. Le indagini coinvolgono in tutto 30 aziende che avevano tagliato a loro volta il vino avvelenato ricevuto dai Ciravegna per poi venderlo al consumo: ma la diluizione non bastava a diminuire la tossicità e la nocività della sostanza.

Veleno nel vino: perché?

I titolari dell’azienda, Ciravegna avevano aggiunto il metanolo al vino per aumentarne la gradazione alcolica. Un motivo commerciale, quindi, o per meglio dire un facile espediente per guadagnare di più, visto che, all’epoca, il metanolo era esente dall’imposta statale di fabbricazione, che colpiva, invece, lo zucchero (comunque vietato, sin dal 1965, come additivo del vino).

Il metanolo era stato detassato appena due anni prima, nel 1984: da quel momento divenne conveniente, per gli operatori senza scrupoli, usarlo al posto dell’alcool etilico, ossia per crearlo abusivamente con un additivo chimico al posto della fermentazione naturale.

Così il prodotto veniva adulterato e messo in commercio. E quelle bottiglie, arrivate nei supermercati ed acquistate dai consumatori italiani, contenevano una sostanza tossica, che non si rivelava se non per un lieve e particolare odore, che però non veniva quasi avvertito dalle persone inconsapevoli del pericolo contenuto nel vino che stavano bevendo, anche in piccole quantità: perché, purtroppo, per avvelenarsi in maniera mortale bastava un solo bicchiere.

Vino al metanolo: il processo

Nel processo, sono state pesantissime le accuse rivolte dalla Procura della Repubblica ai Ciravegna e ai loro collaboratori negli illeciti accertati: sono stati contestati agli imputati i reati associazione per delinquere, omicidio volontario plurimo, lesioni personali gravi o gravissime e, ovviamente, il reato di adulterazione di sostanze alimentari.

Eppure le pene furono piuttosto miti: nel 1992 il maggior responsabile, Giovanni Ciravegna, fu condannato a 14 anni di reclusione, ed il figlio Daniele a 4 anni. Il padre è morto nel 2013, ma nessuno dei due ha risarcito le numerose vittime, in quanto entrambi sono risultati nullatenenti. Uno scandalo nello scandalo, che ancora oggi, a 37 anni di distanza, non ha avuto soluzione.

Vino al metanolo: le ripercussioni sull’economia

La vicenda del metanolo suscitò subito un enorme clamore e colpì improvvisamente l’intero settore vitivinicolo italiano. Le ripercussioni furono pesantissime: molti Paesi bloccarono le importazioni di vino dall’Italia, e questo provocò, nel solo anno 1986, più di mille miliardi di lire dell’epoca di perdite per l’economia italiana (che corrispondono a più di un miliardo di euro di oggi).

Il Governo, guidato dal socialista Bettino Craxi, stanziò 50 miliardi per rilanciare il nostro prodotto alimentare di punta, il vino, per il quale l’Italia è particolarmente apprezzata all’estero, ma il contraccolpo durò a lungo, anche negli anni seguenti. Gli economisti hanno calcolato che ci volle quasi un decennio per ammortizzare i danni e riportare il volume dell’export del vino italiano ai livelli precedenti.

Vino al metanolo: la rinascita del settore

In effetti, i consumi di vino in Italia crollarono improvvisamente proprio in quel periodo, e non fu certo un caso: i consumatori non si fidavano più delle bottiglie che arrivavano sulla loro tavole. Diffidavano del vino, a prescindere dalla marca, dalla zona di produzione e dall’etichetta, così colpendo a fattor comune tutti gli operatori vitivinicoli, in massima parte onesti (lo scandalo Ciravegna è fortunatamente rimasto isolato e non ha avuto imitazioni).

Le vendite e le esportazioni ripresero solo negli anni Novanta, ma la scossa contribuì alla la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema della sicurezza alimentare e favorì la produzione di vini a qualità controllata, come i Doc, i Dop e gli Igt (Indicazione Geografica Tipica): le denominazioni utilizzate per individuare i vini migliori in base a determinate caratteristiche e standard di qualità nella produzione.

Proprio nel 1986, l’anno dello scandalo, fu varata una legge che istituiva l’anagrafe vitivinicola su base regionale, e fu accolta la proposta della Camera di commercio di Asti per la creazione della denominazione di origine protetta per i più rinomati vini piemontesi. E nello stesso anno furono potenziati gli organici dei Nas, i Nuclei anti-sofisticazione dell’Arma dei Carabinieri, che sono diventati un pilastro nella prevenzione e repressione delle frodi alimentari.

Oggi tutti gli esperti del settore vitivinicolo riconoscono che lo scandalo del vino al metanolo è servito, nel lungo termine, a far emergere i produttori onesti e a prevenire le azioni di quelli senza scrupoli, tagliandoli fuori dal mercato. Così la positiva reazione a quella squallida e dolorosa vicenda, che è costata la vita o la vista a molte persone, ha contribuito in modo determinante alla rinascita – o, se si vuole, alla riscoperta – del vino italiano di qualità: quello che oggi è conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo.

 
Pubblicato : 9 Agosto 2023 09:30