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Turni di reperibilità eccessivi: quando c’è risarcimento

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(@paolo-florio)
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Per la Cassazione i turni di reperibilità imposti dal datore di lavoro sulla base del contratto collettivo non devono interferire con il diritto al riposo del dipendente.

La questione dei turni di reperibilità in ambito lavorativo ha più volte sollevato dubbi e controversie non solo negli ambienti di lavoro ma anche nelle aule di tribunale, fino alla Corte Europea di Giustizia. E le domande che ci si è posti sono sempre le stesse: fin dove si può spingere l’obbligo di reperibilità e quando questa rientra nell’orario di lavoro? Può un dipendente essere chiamato continuamente dal proprio datore di lavoro? E quando questa disponibilità può dirsi talmente ampia da compromettere il diritto al riposo?

Una recente ordinanza della Cassazione fa il punto della situazione spiegando quando c’è risarcimento per turni di reperibilità eccessivi.

Nel caso di specie un tecnico specializzato dell’Asl, in qualità di autista di ambulanza, aveva citato in giudizio l’Azienda Sanitaria Regionale lamentando un numero di turni di pronta disponibilità notevolmente superiore a quanto stabilito dal contratto collettivo. In pratica, venivano richiesti dieci turni in più al mese, per un totale di 120 turni annui, ben oltre i 72 previsti dalla normativa di settore. Vediamo qual è stata la decisione della Suprema Corte in merito.

Che cosa dice la legge riguardo al riposo del dipendente?

Secondo la Cassazione (sent. n. 14288/2011, n. 19936/2015 e n. 6912/2016), per stabilire se la reperibilità rientra o meno nell’orario di lavoro bisogna verificare se, nel caso concreto, sussiste il dovere per il dipendente di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato in vista di un’eventuale prestazione lavorativa, ossia di poter raggiungere tempestivamente la sede lavorativa. È chiaro che, in una circostanza del genere, il suo diritto al riposo ne sarebbe compromesso non potendo questi allontanarsi troppo dal luogo ove svolge la prestazione. Ad esempio la Suprema Corte ha riconosciuto la reperibilità come orario di lavoro nel caso del medico in servizio di pronta disponibilità: in tale situazione egli ha «l’obbligo di essere immediatamente e fisicamente presente sul luogo di lavoro in caso di necessità, ciò che limita in modo oggettivo la possibilità del dirigente medico di dedicarsi, in tale periodo, ai propri interessi personali e sociali». Leggi La reperibilità rientra nell’orario di lavoro?

Per la legge, il riposo del lavoratore non è solo fisico ma anche mentale. Ciò significa avere la possibilità di “staccare” completamente dalla routine lavorativa, senza l’ansia di dover essere sempre disponibili, cosa che non succede se non ci si può allontanare troppo.

Qual è stata la recente decisione della Corte di Cassazione?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21934 del 31 luglio 2023, ha ribadito l’importanza del riposo, affermando che il datore di lavoro è tenuto a risarcire il dipendente se gli impone un numero eccessivo di turni di reperibilità, che interferiscono con il suo diritto al riposo.

La Corte ha stabilito che l’eccessiva richiesta di reperibilità impedisce al lavoratore di vivere appieno la sua vita personale, costituendo una violazione dell’art. 2 della Costituzione, oltre che delle norme europee e internazionali.

Nel caso di specie, attraverso “turni” di reperibilità per periodi che almeno in media sono stati pari a circa metà di ogni mese, se non di più, si è determinata una situazione che realizza un condizionamento illecito della vita personale, perché le dimensioni dell’impegno sono state tali da impedire la possibilità stessa di fare liberamente cose ad una certa distanza territoriale dal posto di lavoro; ma poi, riposo nel suo significato più pieno e completo, significa allontanamento anche mentale dalla necessità di mantenersi a disposizione del datore di lavoro e l’entità dell’impegno di cui si è detto impedisce inevitabilmente il realizzarsi di tale fine.

In poche parole, non vi era la necessità che il ricorrente allegasse alcunché di specifico, perché quella misura dell’impegno di disponibilità è la negazione in sé di un tratto della vita personale e dunque un danno alla personalità morale del lavoratore, per essersi perduto il riposo ed essersi in tal modo realizzata un’interferenza illecita nella sfera giuridica inviolabile altrui (art. 2 Cost.) munita in questo di specifico riconoscimento costituzionale, oltre che di riconoscimento in fonti eurounitarie (direttiva 2003/88/CE) ed internazionali.

Quali sono le tipologie di riposo analizzate dalla Cassazione?

La Corte di Cassazione, nel suo recente verdetto, ha individuato differenti scenari in merito al riposo del lavoratore:

  • riposi non intrinsecamente illeciti: Ci sono momenti in cui la mancata concessione del riposo, pur richiedendo l’intervento del dipendente, non è automaticamente considerata illecita. La contrattazione collettiva prevede queste eventualità, garantendo però un adeguato compenso per il lavoratore. Questo scenario è stato trattato in passate decisioni come Cass. 1 dicembre 2016, n. 24563 e Cass. 8 novembre 2019, n. 28938;
  • riposi obbligatori: in alcuni casi, la mancata concessione del riposo è chiaramente illegittima, in quanto infrange le normative che prevedono soste obbligatorie durante l’attività lavorativa. In questi contesti, al lavoratore spetta non solo il compenso per l’attività svolta ma anche un risarcimento per il danno subìto.

La recente sentenza affronta un caso specifico, dove, nonostante la contrattazione collettiva ammettesse possibili variazioni nel numero di turni, la loro effettiva gestione ha portato a una chiara interferenza nella vita privata del lavoratore. Questo ha sollevato interrogativi sulla legittimità e sul rispetto delle normative vigenti.

 
Pubblicato : 14 Settembre 2023 12:00