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Si può agire contro il datore di lavoro che umilia il dipendente?

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(@angelo-greco)
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Posso denunciare il capo che mi mortifica in privato?

Nei contesti aziendali, è frequente l’uso di parole forti e spesso umilianti da parte del superiore gerarchico. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che il datore di lavoro ha, per legge, il cosiddetto potere disciplinare che gli consente di sanzionare le condotte colpevoli e negligenti del dipendente e che, nella sua forma più lieve, si manifesta proprio con semplici richiami verbali. Ma fin dove può arrivare l’uso del linguaggio forte e aggressivo. È certo che non si può infierire sul lavoratore al solo scopo di farlo sentire inadeguato. Di qui la domanda: si può agire contro il datore di lavoro che umilia il dipendente?

La valutazione va fatta – come sempre succede quando si ha a che fare con questioni legali – sulla base del caso concreto e del contesto, del ruolo rivestito dalle parti, delle specifiche parole adoperate ma, soprattutto, della reiterazione del comportamento. Poiché solo laddove questo si sia protratto per un apprezzabile periodo di tempo (di norma sopra i sei mesi, anche se ciò non è specificato dalla legge) si può parlare di mobbing.

Il mobbing si verifica proprio quando il datore di lavoro, in più occasioni, pone dei comportamenti rivolti a sminuire il lavoratore al precipuo scopo di danneggiarlo, emarginarlo e allontanarlo dalla realtà aziendale. Non è necessario che le condotte che compongono il mobbing, singolarmente considerate, siano illecite, ben potendo sostanziarsi nell’esercizio di poteri riconosciuti dalla legge al datore (come ad esempio la richiesta di straordinari, la collocazione delle ferie in un periodo dell’anno non richiesto, il richiamo verbale, ecc.). Ma è proprio la loro reiterazione nel tempo e l’intento che le anima tutte quante, ossia la volontà di mortificare il lavoratore, che fonda i presupposti del mobbing e che quindi giustifica una causa risarcimento del danno (morale, fisico e patrimoniale).

Tuttavia la prova del mobbing non è affatto semplice perché, oltre alla protrazione degli episodi nel tempo, è necessario dimostrare anche lo scopoperseguito dal superiore gerarchico, cosa non sempre agevole visto che esso, di norma, non viene esteriorizzato ma resta nell’alveo del semplice “intento” soggettivo. La legge corre perciò in soccorso del dipendente consentendogli di avvalersi anche di “presunzioni” ossia di indizi. Il giudice insomma può accontentarsi di dedurre il mobbing da elementi sintomatici di un vero e proprio “accanimento”.

La possibilità di agire contro il datore si complica quando gli episodi sono isolati, sporadici e tra loro non collegati dallo specifico scopo di emarginare il lavoratore. Ad esempio non si può parlare di mobbing quando il datore è di indole aggressiva e dunque riserva lo stesso comportamento nei confronti di tutti i lavoratori. Qui manca appunto l’ostilità nei confronti del singolo. Come difendersi in queste ipotesi? Dobbiamo necessariamente richiamare altre fattispecie previste dalla legge.

Il capo che mortifica il dipendente in una chat privata non commette il reato di diffamazione che invece presuppone l’assenza della vittima nel momento dell’espressione ingiuriosa e la presenza di un pubblico. La diffamazione si ha, in buona sostanza, quando si parla male di una persona alle sue spalle. Impossibile quindi la querela laddove il capo si rivolga direttamente all’interessato, a prescindere se lo faccia in pubblico o in privato.

Anche il reato di maltrattamenti non può essere invocato se non c’è una ripetizione nel tempo del comportamento illecito. E peraltro esso scatta solo nei piccoli contesti aziendali, quelli cioè in cui il datore è quotidianamente a contatto col lavoratore.

Non resta che agire per l’ingiuria, che però è un illecito civile e che, a tutto voler concedere, consente di ottenere un modesto risarcimento del danno morale tramite un’azione civile. Essa richiede peraltro un linguaggio oltraggioso e non la semplice aggressione verbale. In più, il danneggiato dovrebbe anticipare i costi del giudizio (come per tutte le cause civili).

Si possono infine valutare gli estremi di una denuncia per minaccia quando il datore costringa il dipendente, sotto intimidazione di licenziamento, ad accettare condizioni di lavoro deteriori rispetto a quelle previste per legge. È il caso del capo che metta il lavoratore dinanzi all’alternativa tra uno stipendio più basso di quello indicato dal contratto collettivo e il licenziamento.

 
Pubblicato : 3 Settembre 2024 06:45