Salario minimo: sì o no?
Sulla questione del salario minimo sono stati scritti fiumi di inchiostro ma a mio avviso la risposta,
negativa, sta già negli artt. 36 e 39 della nostra Costituzione.
Articolo 36 Costituzione:
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità
del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è
stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali
retribuite, e non può rinunziarvi.”
Articolo 39: “L’organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione
presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un
ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità
giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti,
stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
Chi vuole il salario minimo sostiene, erroneamente secondo me, che in Italia
manca una legge sul salario minimo.
Invece c’è nell’art. 36 della nostra Costituzione che disciplina e garantisce la
retribuzione minima.
Secondo l’interpretazione giurisprudenziale l’art. 36 è una norma elastica,
prevista per adeguarsi ad un dato contesto storico – sociale o a speciali2
situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori ma da
specificare in via interpretativa da parte del Giudice del merito, con un giudizio
censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche (per tutte
Cass., sez. lavoro, 15.01.2020, n. 715).
La giusta retribuzione, costituzionalmente garantita, non necessariamente
coincide con il trattamento minimo fissato dalla contrattazione collettiva, né
rileva, nel relativo giudizio di adeguatezza, l’eventuale disparità di trattamento fra
lavoratori della medesima posizione, in virtù della insussistenza nel nostro
ordinamento di un diritto soggettivo alla parità di trattamento (Cass. 04.07.2018,
n. 17421).
L’art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza e adeguatezza della
retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e l’art. 3 Cost.
impone l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non anche nei rapporti
tra privati: conseguentemente la mera attribuzione di un trattamento retributivo
superiore, a parità di mansioni, non potrebbe mai costituire fondamento del
diritto di altri lavoratori al medesimo superiore compenso, ma solo al risarcimento
del danno laddove risulti provata non solo la mera disparità di trattamento (fatto
di per sé legittimo), ma anche l’illegittimità del comportamento datoriale,
attraverso la prova dell’intento discriminatorio (Tribunale Milano, 04.11.2013 in
Lavoro nella giurisprudenza 2014/90).
Ove il rapporto di lavoro sia regolato da un contratto collettivo di diritto comune
proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta
dall’imprenditore, il Giudice, per valutare la sufficienza della retribuzione del
lavoratore ai sensi dell’art. 36 Cost., può utilizzare la disciplina collettiva del
diverso settore come parametro di raffronto e quale criterio orientativo,3
limitatamente alla retribuzione base, senza riguardo per gli altri istituti contrattuali
ed esclusa ogni autonoma applicazione (Cass. 04.06.2008, n. 14791).
Ove la retribuzione prevista dal contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti
inferiore alla soglia minima prevista dall’art. 36 Cost., la clausola contrattuale è
nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell’art. 1419,
secondo comma c.c., il Giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell’art.
36 Cost., con valutazione discrezionale e, specialmente nell’ipotesi in cui la
retribuzione ritenuta inadeguata sia contenuta in un contratto collettivo, deve
essere effettuata con la massima prudenza e adeguatamente motivata, giacché
difficilmente il Giudice è in grado di apprezzare le esigenze economiche e
politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali (Cass.
01.02.2006, n. 2245).
Dunque la norma c’è con ampio potere del Giudice di applicarla.
Orbene, a mio giudizio confortato da numerose pronunce della Corte
Costituzionale, una norma che avesse ad introdurre il salario minimo, oggi si
parla di € 9,00 all’ora, violerebbe l’art. 39 della nostra Costituzione per il quale
l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi non è possibile senza il rispetto delle
condizioni indicate ai commi 2, 3 e 4 dell’art. 39 che sono rimasti sin qui inattuati
preferendo i sindacati, come del resto anche i partiti politici, ricondursi alla figura
delle associazioni non riconosciute.
L’’art. 39 Cost. ha posto, infatti, una riserva di procedimento, per cui se il
Legislatore vuole fare una legge sui sindacati e sulla efficacia erga omnes della
contrattazione collettiva, deve seguire i criteri di cui ai commi 2,3 e 4 della norma
citata (Corte Cost. 22 gennaio 1976, n.19).4
Per poter ottenere, infatti, la registrazione e quindi la personalità giuridica è
necessario che gli statuti dei Sindacati prevedano un ordinamento interno che
deve essere a base democratica.
Solo a seguito della registrazione il sindacato va ad acquistare la personalità
giuridica e la capacità di stipulare contratti collettivi che sono validi per tutti gli
appartenenti alla categoria, e non solo agli iscritti al sindacato com’è ora, cui il
contratto si riferisce.
Determinare poi per legge i minimi retributivi non comporta conseguenze sul
lavoro nero che, anzi, potrebbe addirittura aumentare!
Da ultimo riporto i passaggi essenziali della sentenza 52/2923 della Corte
Costituzionale:
«La perimetrazione della fattispecie legale del contratto collettivo aziendale di
prossimità, al quale la disposizione censurata assegna un’efficacia generale ex lege, ha
come naturale termine di raffronto l’accordo aziendale ordinario che è dotato, invece, di
un’efficacia solo tendenzialmente estesa a tutti i lavoratori in azienda.
È infatti costante nella giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione lavoro,
sentenze 2 novembre 2021, n. 31201; 15 novembre 2017, n. 27115; 18 aprile 2012, n.
6044 e 28 maggio 2004, n. 10353) l’affermazione che l’efficacia generale (per tutti i
lavoratori) degli accordi aziendali è tendenziale – in ragione dell’esistenza di interessi
collettivi della comunità di lavoro nell’azienda, i quali richiedono una disciplina unitaria –
, trovando un limite nell’espresso dissenso di lavoratori o associazioni sindacali; limite
coessenziale alla riconducibilità anche di tali accordi, non diversamente da quelli
nazionali o territoriali, a un sistema di contrattazione collettiva fondato su principi
privatistici e sulla rappresentanza negoziale – non già legale o istituzionale – delle
organizzazioni sindacali. L’accordo aziendale – come in generale il contratto – «ha forza5
di legge tra le parti» e la sua efficacia può essere estesa a terzi solo nei «casi previsti
dalla legge» (art. 1372 del codice civile). Sicché – si è affermato in giurisprudenza –
«sarebbe illecita la pretesa datoriale aziendale di esigere il rispetto dell’accordo aziendale
anche dai lavoratori dissenzienti perché iscritti ad un sindacato non firmatario
dell’accordo medesimo» (Cass., n. 27115 del 2017).
L’accordo aziendale ordinario, quindi, non estende la sua efficacia anche nei confronti dei
lavoratori e delle associazioni sindacali che, in occasione della stipulazione dell’accordo
stesso, siano espressamente dissenzienti. Il loro dichiarato dissenso non inficia la validità
dell’accordo aziendale, ma incide sull’efficacia, la quale quindi, in tale evenienza, risulta
non essere “generale”.
La disposizione censurata mira a colmare questo possibile limite di applicabilità
dell’accordo prevedendo una speciale fattispecie di contratto collettivo aziendale – quello
qualificato come di «prossimità» – che, appunto, ha «efficacia nei confronti di tutti i
lavoratori interessati», come espressamente dispone l’art. 8, comma 1, del d.l. n. 138 del
2011, come convertito, e come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di
cassazione, sezione lavoro, ordinanze 10 novembre 2021, n. 33131 e 15 giugno 2021, n.
16917; sentenza 22 luglio 2019, n. 19660); norma della quale questa Corte ha affermato
il «carattere chiaramente eccezionale» (sentenza n. 221 del 2012).
E tale eccezionalità è ancor più marcata in ragione della prevista possibilità che il
contratto collettivo aziendale di prossimità deroghi alle disposizioni di legge che
disciplinano le materie richiamate dal comma 2 dell’art. 8 e alle relative regolamentazioni
contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro, pur sempre nel rispetto della
Costituzione e dei vincoli derivanti dal diritto europeo e dalle convenzioni internazionali
sul lavoro.6
Siffatta efficacia generale (erga omnes), proprio perché «eccezionale», sussiste solo se
ricorrono gli specifici presupposti ai quali l’art. 8 la condiziona; presupposti previsti
testualmente dalla disposizione censurata e così declinati:
a) occorre che l’accordo aziendale sia sottoscritto «da associazioni dei lavoratori
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro
rappresentanze sindacali operanti in azienda»;
b) è necessario che tali «specifiche intese» – ossia gli accordi aziendali – siano
«sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze
sindacali»;
c) inoltre l’accordo – nel perseguire un interesse collettivo della comunità dei lavoratori in
azienda, che la giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 16917 del 2021 e n. 19660 del
2019) identifica soprattutto nel superamento di crisi aziendali ed occupazionali – deve
risultare alternativamente finalizzato – secondo la tipizzazione del medesimo art. 8,
comma 1, – «alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione
di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli
incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali,
agli investimenti e all’avvio di nuove attività»;
d) infine occorre che l’accordo riguardi «la regolazione delle materie inerenti
l’organizzazione del lavoro e della produzione» con riferimento a specifici settori elencati
dall’art. 8, comma 2. Con l’espressa esclusione della materia dei licenziamenti
discriminatori, l’accordo può riguardare: gli impianti audiovisivi e la introduzione di
nuove tecnologie; le mansioni del lavoratore, la classificazione e l’inquadramento del
personale; i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, il regime
della solidarietà negli appalti e i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; la7
disciplina dell’orario di lavoro e le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di
lavoro.
5.- Orbene, nella specie, la Corte rimettente omette, in realtà, di verificare la
riconducibilità, o no, dell’accordo aziendale, rilevante nel giudizio principale, alla
fattispecie del contratto collettivo aziendale di prossimità, prevista dalla disposizione
censurata; ciò al fine di poter contestare poi, sul piano della legittimità costituzionale, la
prevista efficacia generale ex lege di quest’ultimo, della quale è invece sprovvisto ogni
ordinario accordo aziendale, solo tendenzialmente applicabile a tutti i lavoratori in
azienda.
5.1.- Innanzi tutto, la Corte rimettente riferisce che «il Sindacato firmatario del contratto
di prossimità, la Cisal Si.Nalv è un sindacato maggiormente rappresentativo».
Invece, la disposizione censurata richiede, perché sia configurabile un contratto collettivo
di prossimità, che esso sia sottoscritto «da associazioni dei lavoratori comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze
sindacali operanti in azienda».
La legislazione meno recente ha fatto riferimento al criterio della «maggiore
rappresentatività», come presupposto della normativa di sostegno dell’azione sindacale,
in particolare nell’originaria disciplina delle rappresentanze sindacali aziendali prevista
dallo statuto dei lavoratori (art. 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, recante «Norme
sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività
sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento»).
Ma in seguito il legislatore ha fatto ricorso, sempre più spesso, ad un presupposto
maggiormente selettivo: essere l’associazione sindacale comparativamente più
rappresentativa sul piano nazionale (così ora, in generale, l’art. 51 del decreto legislativo
15 giugno 2015, n. 81, recante «Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione8
della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10
dicembre 2014, n. 183»). A tale più restrittivo presupposto fa testualmente riferimento
anche la disposizione censurata perché sia configurabile un contratto collettivo aziendale
di prossimità e non soltanto un ordinario accordo aziendale.
La Corte d’appello rimettente nulla dice in ordine alla riconducibilità, prescritta dall’art.
8, del sindacato, firmatario dell’accordo aziendale in oggetto, ad una delle associazioni
sindacali «comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale»,
limitandosi a riconoscere, invece, la diversa (e in realtà non determinante) connotazione
di «sindacato maggiormente rappresentativo». Marginalmente può anche notarsi che,
seppur al diverso fine dell’accesso del datore di lavoro alla cosiddetta cassa integrazione
in deroga, proprio la confederazione alla quale fa riferimento il sindacato firmatario
dell’accordo aziendale, oggetto del giudizio a quo, è stata ritenuta, da ultimo, non essere
comparativamente più rappresentativa (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 26
settembre 2022, n. 8300).
5.2.- Soprattutto nell’ordinanza di rimessione nulla è detto in ordine all’ulteriore
presupposto che ancor più connota la identificabilità di un contratto collettivo aziendale
di prossimità: essere stato l’accordo sottoscritto «sulla base di un criterio maggioritario»;
presupposto necessario e determinante, in presenza di un dichiarato dissenso di
associazioni sindacali o di lavoratori, della cui possibile interpretazione il giudice a quo
non dà affatto conto.
L’efficacia generale dell’accordo di prossimità implica che, quando ci sia un tale dissenso
in azienda, la sottoscrizione del contratto collettivo avvenga, appunto, «sulla base di un
criterio maggioritario» sì da vincolare la “minoranza” che tale accordo non vuole.
La disposizione censurata non precisa in cosa possa consistere il «criterio maggioritario».
Solo per i contratti collettivi aziendali, approvati e sottoscritti prima dell’accordo9
interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, essa (art. 8, comma 3) fa
riferimento all’approvazione «con votazione a maggioranza dei lavoratori». Per quelli
stipulati successivamente c’è il ripetuto riferimento a tale accordo interconfederale,
contenuto anche nel comma 1 dell’art. 8. Ma la Corte rimettente neppure prende ciò in
considerazione per valutare se tale riferimento possa, o non, significare che il legislatore
abbia inteso richiamare il criterio «maggioritario» ivi adottato (id est il possibile voto dei
lavoratori in azienda) per assicurare efficacia generale al contratto aziendale, in caso di
dissenso di associazioni sindacali e di lavoratori che si oppongono a tale accordo.
La Corte rimettente riferisce, in punto di fatto, che i lavoratori appellanti, ricorrenti in
primo grado, «avevano aderito ad altro Sindacato non firmatario dell’accordo di
prossimità» e tramite il loro sindacato avevano reso palese il loro dissenso mediante
“disdetta” dell’accordo.
In tale evenienza, affinché nella specie il contratto aziendale potesse superare il dissenso
dell’associazione sindacale non firmataria e dei lavoratori che si opponevano all’accordo,
e rendere efficace le sue disposizioni a «tutti i lavoratori interessati», occorreva che esso
fosse stato approvato «sulla base di un criterio maggioritario», da identificarsi secondo
scelte interpretative rimesse al giudice della controversia.
Invece, la Corte d’appello – nulla dicendo sul punto – avvalora semmai l’ipotesi che si sia
trattato di un ordinario contratto aziendale, che ha un’efficacia tendenzialmente estesa a
tutti i lavoratori in azienda, ma che – secondo la giurisprudenza sopra richiamata – non
supera l’eventuale espresso dissenso di associazioni sindacali e di lavoratori. Ciò tanto
più che, nella specie, il dissenso dei lavoratori ricorrenti in giudizio parrebbe – per quanto
riferito nell’ordinanza di rimessione – essere stato espresso solo nel corso della vigenza
dell’accordo aziendale mediante la sua “disdetta” e non già contestualmente – o
comunque all’epoca – della sua stipulazione.10
5.3.- Anche gli ulteriori presupposti di identificabilità della fattispecie del contratto
collettivo aziendale di prossimità sono rimasti insufficientemente esplorati dalla Corte
d’appello rimettente.
Per un verso poco è detto delle finalità perseguite dall’accordo aziendale, che solo se
riconducibili a quelle tipizzate dall’art. 8, come espressive dell’interesse collettivo della
comunità dei lavoratori in azienda, consentono l’identificabilità di un contratto collettivo
di prossimità. L’ordinanza di rimessione si limita a riferire, in termini meramente
assertivi, che «l’accordo di prossimità era volto ad aumentare l’occupazione e a rendere
sempre più competitiva l’azienda al fine di salvaguardare i livelli occupazionali».
Per altro verso, non è specificata la materia che risulterebbe regolata dall’accordo
aziendale. Nell’ordinanza si legge che l’accordo «aveva stabilito un peggioramento delle
condizioni economiche dei lavoratori», sì che i ricorrenti rivendicavano in giudizio il
«pagamento delle differenze retributive per scatti di anzianità, ferie, ed altri istituti
retributivi». Ma il mero contenimento del trattamento retributivo non rientra, per ciò solo,
tra le “materie” di cui al comma 2 dell’art. 8 (Cass., n. 33131 del 2021).
6.- In conclusione, l’ordinanza di rimessione non contiene, con riferimento ai profili
sopra indicati, una plausibile motivazione in ordine alla circostanza che nel giudizio
principale si controverta proprio di un contratto collettivo aziendale di prossimità ex art.
8 del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, dotato di quell’efficacia generale (erga
omnes) prevista dalla disposizione censurata, che il giudice a quo ritiene contrastante con
gli invocati parametri, e non già di un ordinario contratto aziendale, provvisto di efficacia
solo tendenzialmente estesa a tutti i lavoratori in azienda, ma che non supera l’eventuale
espresso dissenso di associazioni sindacali o lavoratori.11
Da ciò, l’inammissibilità delle sollevate questioni di legittimità costituzionale per
incompleta ricostruzione della fattispecie, che dà luogo a un difetto di motivazione sulla
rilevanza, in riferimento a tutti gli indicati parametri.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del decretolegge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e
per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148,
sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 39, primo e quarto comma, della Costituzione, dalla
Corte d’appello di Napoli, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in
epigrafe..».
Trento, lì 5 luglio 2023
Avv. Paolo Rosa
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