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Rimborso spese ai dipendenti in smart working: come funziona

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(@paolo-remer)
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Indennità e bonus erogati a chi lavora da remoto per compensare i costi energetici e di connettività: quando spettano e qual è il trattamento fiscale.

A ben vedere, i dipendenti in smart working non sono così “fortunati” come si pensava durante la pandemia di Covid-19: è vero che continuano a risparmiare sulle spese di trasporto, perché non devono recarsi quotidianamente in ufficio o in azienda, ma dal 2022 la crisi energetica ha fatto schizzare i prezzi di luce e gas, e così le bollette pesano molto di più rispetto al passato. Lo sa bene chi lavora da casa ed ha bisogno di illuminazione e riscaldamento durante l’intera giornata. Se a questo si aggiungono le spese di connessione ad Internet e quelle per il funzionamento dei vari dispositivi informatici e telematici necessari per lavorare da remoto, si raggiungono cifre esorbitanti, che incidono parecchio sul bilancio mensile.

Alcuni datori di lavoro comprendono queste necessità e cercano di compensare, in tutto o in parte, questi maggiori costi, per evitare che rimangano a carico dei dipendenti. Rimane, però, aperta la questione del trattamento retributivo e fiscale di questi emolumenti. La legge offre alcuni sgravi ed esenzioni d’imposta, che sono stati potenziati rispetto al passato proprio in considerazione della crisi energetica. Vediamo, quindi, come funziona il rimborso spese ai dipendenti in smart working.

Quando il datore di lavoro rimborsa gli smart workers

La scelta del datore di lavoro di rimborsare le spese agli smart workers è consentita, ma non è obbligata. Nel pubblico impiego il contratto collettivo nazionale di lavoro per le funzioni centrali, sottoscritto nel maggio 2022 presso l’Aran, consente alle Pubbliche Amministrazioni di erogare ai lavoratori agili un’indennità speciale, ma finora pochi Ministeri, Regioni, Comuni ed Enti si sono adeguati. Anche nei comparti privati la possibilità di rimborsare i dipendenti in smart working passa attraverso la contrattazione collettiva di categoria, oppure può essere contemplata nell’accordo individuale tra datore e lavoratore sulle modalità di svolgimento delle prestazioni in lavoro agile e da remoto.

Rimborso spese ai lavoratori agili: cosa comprende?

Il rimborso spese ai lavoratori dipendenti comprende una serie di voci eterogenee, a partire dalle trasferte per motivi di lavoro, come le missioni fuori sede, ma la normativa attuale – salvo alcuni contratti collettivi di categoria – non prevede il riconoscimento di un rimborso delle spese di viaggio in caso di smart working, anche perché la sede di svolgimento delle prestazioni lavorative potrebbe non coincidere sempre con l’abitazione del dipendente.

Di recente è stata esplorata la possibilità di far rientrare i rimborsi spese ai lavoratori agili tra i fringe benefit riconosciuti ad alcune categorie dipendenti dai propri datori di lavoro: nell’estate 2022, con l’approvazione del decreto legge Aiuti bis, il tentativo è parzialmente riuscito, come ti abbiamo spiegato nell’articolo “Ora si possono pagare le bollette con il welfare aziendale“. Si tratta, però, di una misura temporanea, destinata a scadere alla fine del 2022, salvo proroghe.

Rimborsi spese ai dipendenti: fanno reddito?

Quanto alle norme generali e stabili nel tempo, in base al principio di legge di «omnicomprensività della retribuzione» [1], tendenzialmente “tutto fa reddito”, salvo eccezione: è previsto infatti, che ai fini Irpef tutte le somme erogate dal datore di lavoro a qualsiasi titolo rientrano tra i redditi di lavoro dipendente di chi le ha percepite nell’anno di imposta considerato.

I rimborsi spese fuoriescono da questa definizione, perché costituiscono una reintegrazione economica, riconosciuta da parte del datore di lavoro, di costi che il dipendente ha sostenuto nell’interesse dell’amministrazione pubblica o dell’azienda privata: quindi, come vedremo adesso, non possono essere tassate, ma non bisogna superare determinati limiti.

Rimborso spese ai dipendenti in smart working: come è tassato?

Quando il datore di lavoro riconosce ai propri dipendenti in smart working un rimborso spese, lo fa anche per compensare la diminuzione dei costi di produzione: basti pensare ai locali aziendali rimasti vuoti, e dunque con luci e termosifoni spenti. Così, specialmente in tempi di aumento dei costi energetici e di “caro bollette”, lo smart working fa risparmiare parecchio le aziende pubbliche e private; ma talvolta è complicato quantificare l’entità di questi costi non sostenuti dai datori di lavoro (o, se si vuole, “scaricati” in diversa forma su chi lavora da remoto) e che poi vengono rimborsati, in tutto o in parte, se i contratti di lavoro lo prevedono.

I rimborsi spese per lavoratori in smart working non concorrono a formare il reddito imponibile – cioè sono esenti da tassazione – fino a 258 euro annui, ma nel 2022 il decreto Aiuti bis ha alzato il plafond di deducibilità piena a 600 euro. In questa cifra, però, rientrano i vari tipi di rimborso spese riconosciuti ai dipendenti, e dunque è compresa anche la quota per compensare i lavoratori agili dei maggiori costi sostenuti per i consumi di luce e gas. Si tratta, quindi, di un limite piuttosto stretto e che in molti casi non è sufficiente a compensare tutti i costi che i lavoratori in modalità agile devono sostenere.

L’Agenzia delle Entrate, rispondendo a vari interpelli sollevati dai contribuenti [2], ha affermato che le somme monetarie erogate a titolo di rimborsi delle spese sostenute dai dipendenti in smart working e «necessarie per garantire la prestazione lavorativa a distanza» non sono tassate (nei limiti di plafond che abbiamo indicato), ma a condizione che i rimborsi siano calcolati «in modo oggettivo e verificabile»: solo così possono essere «considerati come sostenuti nell’ esclusivo interesse del datore di lavoro», anziché ad uso promiscuo e quindi in buona parte a favore del lavoratore stesso.

Così, però, diventa molto difficile quantificare, in concreto, la quota di energia consumata dal dipendente in smart working ed inerente l’attività lavorativa anziché quella personale. È lo stesso problema che era sorto anni fa a proposito del «telelavoro», l’antenato dello smart working, quando bisognava ripartire con il datore le spese della bolletta telefonica privata del dipendente che lavorava a distanza. In quel caso l’Agenzia delle Entrate – con decisioni valide ancora oggi – aveva riconosciuto la compensazione dei costi di comunicazione e di connettività Internet, trattandosi di «costi sostenuti dal lavoratore per raggiungere le risorse informatiche dell’azienda e quindi poter espletare l’ attività lavorativa»: perciò qui il dipendente non deve pagare tasse sui rimborsi ottenuti.

Rimborso spese per smart working: come avviene?

Per aggirare il problema della deducibilità fiscale, molte aziende inseriscono nei contratti di lavoro un rimborso forfettario commisurato alle ore di lavoro giornaliere fatte in smart working (ad esempio, 20 centesimi all’ora moltiplicato il numero di ore lavorate in modalità agile), o un’indennità mensile omnicomprensiva delle varie voci di spese sostenute, che si aggiunge in busta paga alla normale retribuzione (ad esempio, un bonus di 45 euro per ogni mese di smart working pieno); ma in tali casi diventa più arduo dimostrare i requisiti richiesti dall’Amministrazione finanziaria per riconoscere l’esenzione d’imposta, perché non emerge in modo chiaro il collegamento tra l’emolumento economico e la specifica attività lavorativa da cui scaturisce quel rimborso.

Su questi importanti punti si attendono prossimi chiarimenti dall’Agenzia delle Entrate, anche per capire quale documentazione giustificativa dei rimborsi spese va conservata, e se questo adempimento va fatto a cura dal datore di lavoro che li ha erogati o dal dipendente che li ha percepiti.

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Pubblicato : 13 Ottobre 2022 09:00