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Quando non è stalking?

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(@angelo-greco)
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Non rileva l’assenza di malafede e di veri intenti persecutori: il reato scatta solo per l’ansia causata alla vittima.

Nel parlato comune si usa chiamare “stalker” chiunque eserciti una continua ingerenza nella sfera privata altrui, chi perseguita e si accanisce contro un’altra persona. Stalker così, nell’immaginario collettivo, non è solo il pedinatore seriale ma anche chi cerca semplicemente un approccio, chi utilizza i social per attaccare o punzecchiare, chi cerca spasmodicamente da terzi informazioni sul conto altrui per curiosità, pettegolezzo o reale interesse. Ebbene, non tutti questi esempi costituiscono stalking. Per capire dunque quando non è stalking sarà bene definire con precisione – per quanto difficile possa essere – i contorni di tale reato.

Cos’è stalking

Lo stalking viene definito come un reato “a forma libera”. La legge cioè non specifica qual è lo specifico comportamento vietato che conduce alla condanna penale; si limita piuttosto a descrivere quali effetti è necessario che la condotta del reo determini in capo alla vittima. E stabilisce che si ha stalking quando si genera in un’altra persona:

  • un perdurante e grave stato di ansia o di paura;
  • oppure un fondato timore per l’incolumità propria o di un proprio caro;
  • oppure un cambiamento delle proprie abitudini di vita (anche la sostituzione di una scheda telefonica, la sospensione di un account social o la modifica della strada per recarsi al lavoro).

A monte di tutto però vi deve essere un comportamento reiterato, minaccioso o molesto. Dunque, è necessario che il tutto non si esaurisca in un solo episodio ma che questo questo si ripeta nel tempo. Ciò può succedere, ad esempio, quando la medesima condotta viene reiterata nel corso di più giorni o quando essa si consuma nello stesso giorno ma si protrae per più ore (si pensi a un paparazzo che cerca di fotografare un vip e lo perseguita per tutta la giornata). 

Quando c’è stalking

Chiaramente l’elemento essenziale dello stalking è la prova: 

  • del comportamento molesto e reiterato;
  • degli effetti che tale comportamento ha avuto sulla vittima.

Ci si potrà chiedere: come si fa a dimostrare lo stato di ansia, il timore e la paura visto che si tratta di stati soggettivi e intimi, spesso non manifestati all’esterno? Proprio per evitare che reati come lo stalking restino impuniti, nel processo penale è ammessa la testimonianza della vittima, che costituisce prova e che è sufficiente a fondare una condanna. Come dire: è la stessa vittima a dire se era preoccupata o meno. 

Ma oltre alle dichiarazioni della vittima si possono portare in processo i certificati medici, le dichiarazioni dei testimoni, le registrazioni video e audio, gli screenshot di chat, i tabulati telefonici e altre documentazioni che attestino ad esempio il cambio di abitudini di vita (per es. la sostituzione della numerazione telefonica). Questo argomento viene approfondito nella guida Prove stalking.  

Per lo stalking ci vuole malafede?

Secondo la Cassazione [1], l’assenza di malafede è del tutto indifferente ai fini della consumazione del reato di stalking: l’imputato non può cioè difendersi sostenendo che il proprio intento non era persecutorio (si pensi al paparazzo che pedina un vip per lavoro e non per un intento persecutorio).

Infatti, gli atti sono “persecutori” e quindi imputabili penalmente proprio per la conseguenze psicologiche ed esistenziali che si determinano – in maniera non occasionale – nella vita della parte offesa.

Fare il paparazzo è stalking

La Corte di cassazione [1] ha respinto il ricorso di un paparazzo che era stato condannato per stalking per il suo comportamento “lavorativo”, con cui insistentemente cercava di contattare o incontrare la vittima per ottenere informazioni sul mondo del calcio in cui essa lavorava e dalla quale pretendeva anche continui favori consistenti nell’intercedere presso i calciatori al fine di realizzare servizi fotografici.

La vittima aveva rinunciato a recarsi sul luogo di lavoro per le proprie attività professionali, aveva dovuto bloccare le chiamate in arrivo e cercava di non frequentare altri luoghi di ritrovo individuabili dal ricorrente paparazzo. Il verificarsi di tali conseguenze negative non occasionali nella sua vita quotidiana ha portato alla conferma della condanna per atti persecutori respingendo la diversa qualificazione, pretesa dal ricorrente, della condotta penalmente rilevante.

Quando non c’è lo stalking

Lo stalking non può essere punito se la vittima non dimostra uno dei tre effetti che abbiamo descritto sopra (lo stato di ansia, di timore o il cambiamento delle abitudini di vita) e se non c’è prova del comportamento minaccioso e reiterato. Se la condotta del reo si consuma in un’unica occasione e per breve tempo, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, si può tuttavia parlare del più lieve reato di molestie.

Per aversi stalking, è dunque necessario che alla condotta molesta faccia seguito una ripercussione negativa sulla vita della vittima, così come specificato dalla legge. Le conseguenze, dunque, sono importantissime, perché in assenza non si potrebbe parlare di reato di atti persecutori.

Il fatto di fare allusioni o critiche aperte su un social network non può configurare stalking se nel contenuto dei post o dei commenti non c’è l’atteggiamento minaccioso. Si potrà tutt’al più configurare una diffamazione o un’ingiuria. La prima è reato, la seconda è solo un illecito civile che dà luogo unicamente al risarcimento del danno. 

Una lievissima preoccupazione o un cambiamento irrilevante della abitudini di vita potrebbe non fa scattare il reato di stalking. Si pensi a una persona di natura già ansiosa e a cui anche una chiamata più del dovuto cagiona un attacco di panico: in un caso del genere, sicuramente, non potrà essere contestato lo stalking a colui che ha fatto una telefonata di troppo, per quanto con insistenza.

Approfondimenti

Quando non c’è stalking

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Pubblicato : 11 Novembre 2022 08:54