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Offese del dipendente al datore: la reazione esclude il licenziamento

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(@mariano-acquaviva)
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Quando si può mandare via un dipendente? Gli insulti del lavoratore giustificano sempre il licenziamento?

Datore e dipendente sono legati da un contratto che li vincola al rispetto di determinati obblighi. Mentre per il lavoratore il recesso è sostanzialmente libero, nel senso che egli può dimettersi quando vuole, salvo il rispetto del termine di preavviso, il datore può intimare il licenziamento solo al ricorrere di alcune condizioni.

Ad esempio, secondo la giurisprudenza, le offese del dipendente al datore potrebbero non essere sufficienti per giustificare il licenziamento, soprattutto se “in tronco”. Approfondiamo la questione.

Datore: quando può intimare il licenziamento?

Il datore di lavoro può licenziare il dipendente solo in certi casi. Si è soliti distinguere tre forme di licenziamento:

  • per giustificato motivo soggettivo, quando il lavoratore è stato inadempiente ai propri doveri. Si pensi al dipendente che fa sempre tardi oppure che è responsabile di una scarsa resa;
  • per giusta causa, quando il lavoratore ha commesso una gravissima violazione dei propri obblighi. Si pensi al furto di beni aziendali oppure alle molestie sul posto di lavoro. In ipotesi del genere, il datore può licenziare in tronco il dipendente, senza concedergli il preavviso. La forma scritta del licenziamento è invece sempre necessaria;
  • per giustificato motivo oggettivo, ovverosia per ragioni riconducibili alla situazione aziendale. Classica ipotesi è la riduzione del personale causata da un pesante calo del fatturato.

Offese al datore: c’è licenziamento?

Secondo la Corte di Cassazione, offendere il datore non giustifica necessariamente il licenziamento in tronco del dipendente, soprattutto se l’insulto costituisce una reazione al comportamento del capo [1].

Secondo la Suprema Corte, per valutare la legittimità del licenziamento disciplinare bisogna scendere nelle “viscere” dell’offesa, comprenderne l’effettiva portata, le intenzioni e lo spirito di insubordinazione che la anima.

Se all’imprenditore non è mai consentito sfruttare la propria posizione di superiorità gerarchica per insultare il dipendente “sul personale” (leggi “Fin dove il superiore può insultare il dipendente”), al contrario al lavoratore si può perdonare – di tanto in tanto – la parola di troppo.

Nel caso di specie, i giudici hanno qualificato il comportamento dell’uomo – a seguito di una proposta di trasferimento – come una semplice reazione istintiva ad un provvedimento del datore che, per le sue modalità, ben poteva essere interpretato come finalizzato non a perseguire oggettive esigenze aziendali, ma ad impedirgli di assumere importanti incarichi sindacali.

Proprio per il modo in cui il lavoratore ha percepito la volontà dell’azienda, la sua reazione poteva essere giustificata: la condotta, insomma, non era poi così grave, secondo i giudici, sia per l’insussistenza della portata intimidatoria delle espressioni utilizzate, sia per il profilo psicologico.

La vicenda fa comprendere una questione molto chiara: in tema di licenziamento disciplinare determinato a seguito di insulti del dipendente, una regola fissa non c’è, ma bisogna valutare caso per caso.

Sarà quindi il giudice a dover effettuare un accertamento in concreto della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente nonché della proporzione tra sanzione disciplinare e infrazione.

 
Pubblicato : 23 Settembre 2023 19:02