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Mobbing donne

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Donne che subiscono vessazioni sul lavoro: come difendersi? A chi chiedere aiuto?

Sei un’insegnante di lettere in un liceo classico. Il clima sul lavoro è disteso e vai d’accordo con tutti i colleghi. Con l’arrivo del nuovo dirigente scolastico, però, le cose sono cambiate e per te è iniziato un vero e proprio incubo: non ti sono concessi giorni di permesso, vieni controllata durante le lezioni e sei stata ripresa più volte in presenza dei tuoi alunni. Per non parlare delle continue molestie (apprezzamenti personali e avances) che sei costretta a subire ogni giorno da parte del preside.

Non tacere. La situazione in cui ti trovi non è assolutamente “normale”, ha una denominazione, puoi affrontarla ed uscirne, in modo da riappropriarti della serenità e dignità di cui hai diritto sul posto di lavoro.

Tale fenomeno patologico è definito “mobbing”, di esso si può essere vittima indipendentemente dal sesso; tuttavia, il mobbing sulle donne è in forte crescita e non tutte hanno il coraggio di denunciare per paura di perdere il proprio impiego. Per cui, se anche tu vivi un dramma simile, devi sapere che i rischi perfino per la salute sono elevati se non si interviene in tempo.

Ma vediamo dapprima cosa si intende per mobbing, nonché le sue diverse declinazioni, le conseguenze e gli strumenti a disposizione per difendersi.

Mobbing: cos’è e come funziona

Il termine mobbing è un anglicismo derivante dal verbo to mob che significa “assalire”. Esso indica un insieme di comportamenti vessatori ed ostili, continui e volontari, messi in atto da colleghi (mobbing orizzontale) o dal datore di lavoro (mobbing verticale discendente), nel luogo di lavoro allo scopo di emarginare il lavoratore fino a costringerlo a dare le dimissioni. In buona sostanza, si tratta di una vera e propria «distruzione psicologica» che si manifesta attraverso offese, attacchi verbali, provocazioni, rimproveri, ma anche in maniera più subdola, per mezzo della esclusione dalla vita di ufficio del lavoratore stesso, oppure demansionamento e dequalificazione.

Per parlare di mobbing, tuttavia, occorre la compresenza dei seguenti elementi:

  • la volontà persecutoria del mobber, con onere della prova a carico del dipendente che assume di aver subìto la condotta vessatoria [1];
  • la ripetizione costante (per almeno 6 mesi) di comportamenti vessatori e persecutori;
  • il danno alla salute psichica e fisica: ad esempio, il lavoratore mobbizzato inizia ad avere tachicardia o a soffrire di crisi depressive;
  • il nesso causale vale a dire la relazione di causa-effetto tra le vessazioni e il danno sofferto.

Quanti tipi di mobbing ci sono?

È possibile distinguere il bossing che riguarda una particolare tipologia di mobbing verticale discendente, attuata nei confronti del lavoratore dai superiori gerarchici (ad esempio, dal dirigente d’azienda). La finalità del bossing è quella di sfavorire il dipendente in maniera selettiva e indurlo alle dimissioni, senza che ci siano interferenze da parte dei sindacati.

Ora un esempio di quella che è diventata, con il passare del tempo, una vera e propria strategia aziendale, impiegando come strumento il demansionamento e la dequalificazione.

Caia lavora in banca come consulente finanziaria. L’istituto bancario, però, deve ridurre il personale e inizia ad affidare a Caia mansioni inferiori che non le competono e a revocarle i vari benefits aziendali (computer, telefono, tablet, ecc.) senza un motivo giustificato. A lungo andare, Caia non ce la fa più e si dimette.

Diversa è l’ipotesi del mobbing ascendente, dal basso, messo in atto dai soggetti subordinati nei confronti del datore di lavoro.

Se, invece, le vessazioni sono messe in atto dai colleghi, allora si parla di mobbing orizzontale. In pratica, viene scelta una vittima, solitamente un lavoratore particolarmente brillante, su cui scaricare le proprie gelosie professionali. Lo scopo, in tal caso, è intuitivo: si vuole impedire a tutti i costi l’avanzamento di carriera del dipendente.

Infine, si parla di straining, forma di mobbing che è caratterizzata da comportamenti stressogeni, ma che produce ed esaurisce i propri effetti in un breve lasso di tempo, anche mancando la pluralità delle condotte [2].

Conseguenze del mobbing

Il mobbing nel suo complesso rientra nell’ambito dei c.d. rischi psicosociali, come il burnout, lo stalking, la violenza e la molestia.

Secondo gli ultimi dati statistici dell’Inail, l’82% delle donne che denunciano dei disturbi psichici causati dal lavoro li attribuisce al mobbing.

Le situazioni più frequenti sono:

  • rifiuto ingiustificato di concedere permessi o un orario di lavoro ridotto (part-time);
  • accuse di scarsa produttività;
  • assegnazione di mansioni inferiori rispetto al ruolo ricoperto;
  • attribuzione di compiti urgenti non necessari e mai verificati;
  • contestazioni o richiami disciplinari non adeguati;
  • esclusione della dipendente dalle riunioni di routine;
  • critiche ingiustificate circa lo svolgimento del lavoro;
  • rimproveri continui e uso di tono arrogante in presenza dei colleghi;
  • minacce di trasferimento o licenziamento;
  • controllo ossessivo della dipendente;
  • molestie come, ad esempio, palpeggiamenti, apprezzamenti, avances;
  • valutazioni di profitto non adeguate al lavoro svolto.

Quanto descritto contribuisce a creare un clima intimidatorio, ostile ed avvilente. A causa del mobbing, molte donne avvertono sintomi come astenia, ansia, depressione, attacchi di panico, disturbi del sonno, anoressia, bulimia, alcolismo, cefalea, vertigini, eruzioni cutanee, tachicardia, ipertensione arteriosa, disturbi dell’apparato gastrointestinale, patologie psichiatriche.

Come difendersi dal mobbing donne 

Per capire come possono difendersi le donne dal mobbing, partiamo da un esempio.

Tizia lavora come commessa in un negozio di abbigliamento. Dopo aver partorito, rientra dal periodo di maternità e chiede al titolare di poter lavorare part-time, così come previsto regolarmente dal contratto. Il datore di lavoro, però, fa orecchie da mercante e Tizia è costretta a lavorare a tempo pieno.

Questo è uno dei tanti casi mobbing che colpiscono le donne, le quali, per paura di perdere il posto fisso, non reagiscono e vanno avanti finché non rassegnano le dimissioni.

Spesso, a tale contesto si aggiungono minacce o molestie che la donna è costretta a subire. Pertanto, se la condotta vessatoria si traduce in un’ipotesi di reato, la vittima può presentare, in qualsiasi momento, una querela all’autorità giudiziaria competente per territorio (Polizia, Carabinieri, Procura della Repubblica).

Dal punto di vista civile, invece, la donna vittima di mobbing può depositare un ricorso al Tribunale del lavoro competente e chiedere un risarcimento per tutti i danni patiti.

La giurisprudenza, infatti, riconduce il mobbing alla violazione dell’art. 2087 c.c., quindi nell’alveo della responsabilità del datore di lavoro, quindi contrattuale. Sicché il risarcimento del danno può essere sia di carattere patrimoniale per la ridotta capacità di guadagno, sia non patrimoniale per la lesione del diritto alla salute con conseguente pregiudizio alla piena realizzazione della persona, in violazione del generale dovere di sicurezza e di tutela delle condizioni di lavoro.

Prima di avviare una causa, civile o penale che sia, è importante raccogliere tutte le prove utili per dimostrare:

  • di essere vittima di una condotta mobbizzante da diverso tempo: ad esempio, per circa sei mesi hai ricevuto insulti, molestie, minacce di licenziamento, ecc.;
  • che le vessazioni hanno danneggiato la salute fisica e/o psicologica: ad esempio, hai sviluppato uno stato di ansia tale da fare uso di farmaci.

Ancora, valutare se ci siano dei testimoni (come i colleghi di lavoro) che possano dichiarare in giudizio di aver assistito a episodi di mobbing. Sono indispensabili, altresì, i certificati medici da cui si evince che, ad esempio, si è in cura da uno psicologo.

È importante segnalare, inoltre, situazioni del genere a uno dei tanti sportelli antimobbing presenti in Italia (chiedendo aiuto, se è il caso, anche ai centri antiviolenza) oppure parlarne pubblicamente per mezzo di tv, giornali o radio. Raccontare la propria storia potrebbe abbattere il muro dell’omertà e aiutare tante altre donne che si trovano in una situazione identica.

Si rende nota anche l’esistenza del Comitato per le pari opportunità (Cpo) e del Comitato paritetico sul fenomeno del mobbing (oggi Comitato unico di garanzia), il cui obiettivo risulta essere quello di intervenire per un miglioramento delle condizioni di lavoro, assicurando pari opportunità e tutela dei lavoratori.

Ne emerge un prontuario utile ad ogni donna per poter reagire, affinché ad ogni lavoratrice sia garantita la tutela della integrità psico-fisica e, nel complesso, il rispetto della propria dignità.

 
Pubblicato : 6 Aprile 2023 17:35