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La reperibilità rientra nell’orario di lavoro?

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(@paolo-remer)
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Turni, guardie, disponibilità e riposi: come si fa a capire quando c’è un’effettiva disponibilità del lavoratore a prendere servizio, che come tale va remunerata.

Una delle cose più importanti per valutare la convenienza di un rapporto di lavoro è capire la differenza tra il lordo e il netto: non ci riferiamo solo allo stipendio, ma anche e soprattutto al tempo impiegato per rendere la prestazione. Perchè il tempo è denaro: dunque bisogna considerare quanto ci si mette ogni giorno per arrivare al lavoro, e la sera per rientrare a casa, quanto occorre per cambiarsi e indossare l’uniforme (il cosiddetto “tempo tuta”) ed anche cosa succede quando non si è sul posto ma bisogna rimanere contattabili in caso di richiesta, perché durante questi orari vincolati non ci si può rilassare del tutto e disporre liberamente del proprio tempo. Ma quando la reperibilità rientra nell’orario di lavoro e quando, invece, ne esula?

È importante saperlo, perché è evidente che nel secondo caso non sarà retribuita, mentre nella prima ipotesi gli emolumenti per i turni di reperibilità svolti sono dovuti e il lavoratore ha diritto di pretenderli dal suo datore. Inoltre se la reperibilità è considerata come lavoro, va anche computata ai fini del riposo, giornaliero e settimanale, spettante al dipendente che l’ha svolta.

Quando c’è reperibilità

La reperibilità è il periodo, fuori dall’arco del normale orario di lavoro contrattualmente stabilito, in cui il dipendente deve poter essere contattato e pronto a raggiungere la sede, per le eventuali richieste di svolgimento della sua prestazione lavorativa.

Le categorie più comuni in cui è contrattualmente prevista la reperibilità sono quelle degli impiantisti (come i tecnici e gli operai manutentori), ma il fenomeno è diffuso anche tra i medici di guardia (ed anche ospedalieri, nel caso di «pronta disponibilità» e i vigili del fuoco.

L’orario di lavoro comprende la reperibilità?

Una fondamentale direttiva europea sull’orario di lavoro, alla quale l’Italia ha dato da anni piena attuazione [1], stabilisce che è orario di lavoro «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni». Quindi se c’è la presenza sul luogo di lavoro, oppure l’obbligo di “messa a disposizione” per svolgere le attività lavorative stabilite, siamo sicuramente nell’ambito dell’orario di lavoro.

Le medesime fonti normative individuano una nozione “al contrario” dell’orario di lavoro, e cioè quella del periodo di riposo, definito in maniera ampia come «qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro». Il riposo serve a reintegrare le energie psico-fisiche del lavoratore, consumate durante l’esecuzione delle prestazioni. Non può avere durata inferiore a 11 ore consecutive nell’arco delle 24 ore, ma le legge precisa che vanno «fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità».

Come viene trattata la reperibilità

La legge non fornisce una definizione di reperibilità e tutto è rimesso alla contrattazione collettiva e individuale di lavoro. La giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea e della Corte di Cassazione italiana ha cercato di colmare questa lacuna, per rispondere al nostro importante quesito: quando la reperibilità costituisce orario di lavoro e, dunque, deve essere retribuita, oltre che valere nel computo dei periodi di riposo previsti per ogni lavoratore.

Quando la reperibilità rientra nell’orario di lavoro

Dalla disamina delle più importanti sentenze, italiane ed europee, intervenute negli ultimi anni si evince il criterio fondamentale per capire quando la reperibilità rientra nell’orario di lavoro e quando, invece, ne fuoriesce.

La Cassazione afferma in numerose pronunce [2] che il criterio discretivo sta nello stabilire se nel caso concreto c’è oppure no «l’obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato in vista di un’eventuale prestazione lavorativa». Ecco perché la Suprema Corte ha riconosciuto la reperibilità come orario di lavoro nel caso del medico in servizio di pronta disponibilità: in tale situazione egli ha «l’obbligo di essere immediatamente e fisicamente presente sul luogo di lavoro in caso di necessità, ciò che limita in modo oggettivo la possibilità del dirigente medico di dedicarsi, in tale periodo, ai propri interessi personali e sociali» [3].

Quando la reperibilità è fuori dall’orario di lavoro

Attagliandosi ai medesimi criteri che abbiamo esposto, la giurisprudenza ha escluso la reperibilità come orario di lavoro ad alcuni dipendenti Enel che svolgevano compiti di «vigilanza continuativa» di una diga: in questo caso c’era, a giudizio della Cassazione [4], «la possibilità per i lavoratori di gestire il loro tempo in modo libero e di dedicarsi ai loro interessi». Inoltre – spiega la Corte – «il servizio di reperibilità speciale, pur vincolato nel luogo di espletamento, lasciava libero il lavoratore di riposare e dedicarsi ad attività di suo gradimento anche in compagnia, senza alcun obbligo specifico di vigilanza. Un servizio sostanzialmente di attesa che si attiva solo a seguito di allarme, per il quale era prevista una indennità ed un riposo compensativo, ed in relazione al quale qualunque prestazione eventualmente richiesta sarebbe stata retribuita come lavoro straordinario».

Reperibilità come orario di lavoro: i casi dubbi

Le interpretazioni che abbiamo esposto riguardano vicende specifiche e lasciano fuori numerose ipotesi che possono verificarsi in concreto. Ci sono alcuni indicatori, elaborati dalla giurisprudenza, che aiutano a capire se si tratta di reperibilità che si colloca dentro o al di fuori dell’orario di lavoro, come:

  • la distanza tra il domicilio del lavoratore e il luogo che deve raggiungere se viene chiamato (anche se il lavoratore non può decidere arbitrariamente di dimorare o soggiornare in zone troppo distanti durante i periodi di reperibilità, altrimenti verrebbe compromessa la tempestività del suo intervento, quando necessario);
  • il termine entro cui, non appena ricevuta la richiesta di intervento, il lavoratore deve recarsi sul posto (quanto più è breve, tanto più è probabile che si tratti di orario di lavoro);
  • la frequenza media delle prestazioni di lavoro che l’azienda richiede e vengono effettivamente svolte durante i periodi di reperibilità (se è elevata, molto probabilmente si tratta di orario di lavoro).

In estrema sintesi, nei casi dubbi, in cui non appare chiaro se la reperibilità sia compresa nell’orario di lavoro, si può ritenere che quando viene stabilito come turno di reperibilità un vero e proprio periodo di guardia, probabilmente esso rientra nell’orario di lavoro, mentre quando il lavoratore si impegna soltanto ad intervenire (anche entro un arco di tempo predeterminato, ad esempio 20 minuti o un’ora) sul posto in caso di allerta o allarme, bisogna valutare caso per caso se questo onere di messa a disposizione con pronta disponibilità comprima le possibilità di riposo e di dedicarsi ad attività extralavorative e di svago.

Approfondimenti

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Pubblicato : 29 Novembre 2022 19:00