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Infarto da superlavoro: c’è risarcimento?

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(@paolo-remer)
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Come provare che i ritmi eccessivi di lavoro hanno provocato l’infarto; quali sono i danni indennizzati dall’Inail e quelli risarcibili dal datore di lavoro.

Molti qualificati studi scientifici – tra cui quelli dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) – segnalano una forte correlazione tra le malattie cardiovascolari e il superlavoro, connotato da ritmi e orari eccessivi, che a lungo andare diventano insostenibili per l’organismo umano. Ma in caso di infarto sul lavoro c’è risarcimento?

Infarto: indennizzo Inail e risarcimento danni

A determinate condizioni, l’infarto è considerato un infortunio sul lavoro e quindi dà diritto all’indennizzo erogato dall’Inail. Però per ottenere dal datore di lavoro il risarcimento degli ulteriori danni provocati dall’evento patologico (che possono essere di tipo patrimoniale, come le spese farmacologiche e per interventi chirurgici, o non patrimoniale, come il danno biologico e da usura psico-fisica) occorre qualcosa di più: lo ha ribadito una recente ordinanza della Corte di Cassazione [1].

Il caso riguardava un dipendente pubblico che era stato colpito da infarto, a suo dire causato dai turni eccessivi di lavoro ai quali era stato sottoposto nel corso degli anni. Quel lavoratore partiva avvantaggiato nella richiesta risarcitoria, perché gli era già stato riconosciuto il cosiddetto “’equo indennizzo” (spettante per le patologie contratte nel corso o a causa del servizio), grazie al quale – come ha riconosciuto la Suprema Corte – il «nesso eziologico», cioè il rapporto di derivazione causale, tra l’infarto (evento lesivo) e l’attività lavorativa in concreto svolta (causa determinante) era stato già accertato in modo «pacifico ed incontestato».

Eppure la sua domanda per ottenere anche il risarcimento dei danni all’Amministrazione di appartenenza era stata respinta nei primi due gradi di giudizio: occorreva, secondo i giudici di merito, qualcosa di più, che era rimasto indimostrato, perché il  lavoratore non aveva fornito la prova necessaria. La Cassazione ha, infine, accolto il ricorso di quel lavoratore, volto ad ottenere il risarcimento dell’infarto da superlavoro, ma ha nuovamente demandato la causa alla Corte d’Appello per approfondire la vicenda e, in particolare, per verificare il rispetto degli «oneri probatori» incombenti sulle due contrapposte parti: da un lato il lavoratore colpito dall’infarto, e dunque danneggiato, e dall’altro lato il datore di lavoro, che è tenuto al risarcimento dei danni se emerge la sua responsabilità per violazione delle norme sulla tutela della salute sul lavoro.

Quando l’infarto è infortunio sul lavoro?

La giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione [2] considera l’infarto come «infortunio sul lavoro» quando è «eziologicamente collegato ad un fattore lavorativo»: deve, cioè, sussistere un rapporto di causa-effetto tra l’attività lavorativa svolta e l’infarto. Si tratta di un giudizio che parte da circostanze di fatto (il tipo di lavoro concretamente svolto) e arriva a un giudizio di natura medico-legale (l’attribuzione dell’infarto, con elevata probabilità, proprio al superlavoro e non ad altre cause).

Ti anticipiamo che questo stesso requisito deve sussistere anche per poter ottenere il risarcimento dei danni, che è qualcosa di più rispetto al semplice indennizzo (forfettizzato in base a tabelle predeterminate) e, oltretutto, viene chiesto non all’Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione degli infortuni sul lavoro) bensì al datore di lavoro, che può essere un soggetto pubblico o anche un privato. In ogni caso, se il lavoratore muore in conseguenza dell’infarto che lo ha colpito, ai suoi familiari superstiti spetta una rendita Inail.

Le condizioni di lavoro che provocano l’infarto

Ritmi eccessivi, turni troppo lunghi e massacranti, condizioni di lavoro degradanti, straordinari oltre i limiti, mancanza di riposi quotidiani (che spettano, è bene ricordarlo, per 11 ore continuative al giorno nell’arco delle 24 ore) affidamento di compiti “impossibili” da svolgere in breve tempo e dunque snervanti, carichi di lavoro insostenibili ed anche – come ha affermato una sentenza della Cassazione [3] – le missioni troppo frequenti, specialmente se svolte all’estero e con pernottamenti precari o con il fenomeno del jet lag: sono questi gli eventi più frequenti che possono causare numerose patologie, tra cui ansia, stress e sindrome da burnout, che sono i fattori scatenanti dell’infarto.

Come si prova che l’infarto è dovuto al superlavoro?

L’art. 2087 del Codice civile impone a tutti i datori di lavoro l’obbligo di preservare la salute dei propri dipendenti: devono «adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore».

La violazione di questa norma (e di quelle da essa discendenti, come il Testo Unico sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro) consente di avanzare una richiesta risarcitoria nei confronti del datore di lavoro “colpevole” di aver richiesto un superlavoro e dunque di avere, sia pure indirettamente, causato l’infarto; ma il lavoratore infartuato (o i suoi familiari ed eredi, in caso di morte) deve dimostrare l’esistenza del nesso di causa-effetto che lega l’infarto al lavoro eccessivo, in modo da provare che l’infarto è stato provocato proprio dal superlavoro, e non è dovuto ad altre cause indipendenti e delle quali il datore di lavoro non è responsabile.

In particolare – come ti spieghiamo ampiamente nell’articolo “Danno da superlavoro: come si prova?” anche nel caso dell’infarto (così come per le altre patologie cardiovascolari) la malattia deve risultare riconducibile all’eccessivo e intollerabile lavoro svolto, e deve risultare chiaro che è stato proprio questo fattore a provocarne l’insorgenza. Quando il lavoratore riesce a fornire questa prova, il datore di lavoro, per evitare la responsabilità risarcitoria, deve dimostrare – come afferma la Cassazione nella nuova ordinanza da cui siamo partiti – che «i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile».

Il principio di diritto sancito dalla Suprema Corte nell’occasione è questo: «In tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore».

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Pubblicato : 30 Novembre 2022 08:30