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È violenza sessuale se lei non oppone resistenza e non grida?

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(@angelo-greco)
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Il semplice fatto di dire “non voglio” è sufficiente affinché le insistenze possano configurare violenza sessuale.

«Quale parte del “no” non hai capito?». Con questo incisivo slogan, apparso negli ultimi anni sui social, è stata portata avanti una campagna informativa contro la violenza sessuale. Lo scopo è far comprendere ad alcuni uomini che il reato in questione non scatta solo in presenza di una violenza fisica: lo stupro si può configurare anche quando la vittima, per il timore di ripercussioni più gravi, è costretta a dire di sì nonostante non voglia.

Proprio di recente la Cassazione ha chiarito se si può ugualmente parlare di violenza sessuale se lei non oppone residenza e non grida. Facciamo il punto della situazione partendo da due esempi concreti di fatti realmente accaduti.

Quando lei dice di non volere, è violenza sessuale?

C’è un episodio che la stessa Suprema Corte ha trattato alcuni anni fa. Un uomo, alla guida di un’auto, con a bordo una ragazza, aveva insistito affinché i due si appartassero. Nonostante lei avesse espresso la volontà di tornare a casa, lui aveva ugualmente proseguito fino a raggiungere un luogo isolato. Al ché, la giovane non si era sottratta al rapporto sessuale temendo una violenza maggiore, con l’impossibilità di chiamare soccorsi in un’area abbandonata.

Un’altra situazione è stata quella analizzata dalla Cassazione con sentenza n. 4199/2024. La moglie non voleva avere più rapporti col marito, ragion per cui aveva deciso di dormire in letti separati e si era sistemata nella stanza dei figli. L’uomo però, durante la notte, faceva ugualmente incursione chiedendo di lei. La moglie non si sottraeva per timore che lui potesse andare in escandescenze e intimorire i bambini.

In tutti questi casi viene in rilievo il principio secondo cui la violenza sessuale si può configurare anche quando la donna fa una resistenza minima, di tipo verbale: quando ad esempio si limita a dire “Non voglio”, pur cedendo dopo alle insistenze maschili.

Come viene interpretata la violenza o la minaccia nel contesto sessuale?

Per parlare di stupro non si richiede che la violenza sia talmente forte da annullare la volontà della vittima costringendola fisicamente o minacciandola con armi. L’importante è che tale volontà risulti in qualsiasi modo coartata dalla condotta dell’agente, non importa se con comportamenti allusivi o con condotte poste in situazioni di potenziale pericolo (un luogo appartato).

Né è necessario che l’uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall’inizio sino al congiungimento: è sufficiente che il rapporto non voluto sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta.

Quindi, il fatto che la donna abbia detto inizialmente “no” in modo deciso e netto, ma poi abbia partecipato attivamente all’atto potrebbe determinare il reato di violenza sessuale, anche se appunto non c’è stata alcuna costrizione fisica durante il rapporto.

Se la donna piange è violenza sessuale?

Questa linea della Suprema corte si è manifestata in un caso in cui la persona offesa, “pur piangendo e manifestando il proprio dissenso, non aveva frapposto alcuna opposizione fisica al rapporto sessuale impostole dal proprio convivente, nel timore derivante da un violento colpo infertole dall’imputato assieme all’intimazione a seguirlo in camera da letto, e nella preoccupazione di non svegliare con le proprie urla il figlio che dormiva nella stanza attigua”.

In un caso giudiziario anche questo abbastanza noto, la Cassazione ha ritenuto sussistente la violenza sessuale perché lei, spinta ad avere il rapporto nonostante non volesse, si era messa a piangere subito dopo ed aveva chiesto al suo aggressore di accompagnarla a casa.

Qual è la prova della violenza sessuale

Nei reati sessuali la testimonianza della vittima è spesso unica fonte del convincimento del giudice. In pratica, trattandosi di reati che si consumano a tu per tu, lontano da occhi indiscreti, è chiaro che le dichiarazioni della parte offesa diventano una prova.

Tuttavia, dice la Cassazione, è essenziale la valutazione circa l’attendibilità della vittima; tale giudizio può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale.

Le dichiarazioni della persona offesa, dunque, possono da sole, senza la necessità di riscontri esterni, essere poste a fondamento di una condanna penale dell’imputato. Vi deve tuttavia essere prima la verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto: verifica che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Il giudice dunque dovrà indicare “le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata”.

 
Pubblicato : 5 Febbraio 2024 07:00