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Differenza tra licenziamento ritorsivo e discriminatorio

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(@angelo-greco)
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Onere della prova e nullità del licenziamento: cosa significa licenziamento discriminatorio e cosa vuol dire invece licenziamento ritorsivo. 

Per quanto si usa spesso parlare di licenziamento ritorsivo e di licenziamento discriminatorio come se si trattasse della stessa cosa, in realtà sono due ipotesi completamente diverse che conducono tuttavia alla medesima conseguenza: la nullità del provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro e l’obbligo di reintegra sul posto del dipendente. 

Per comprendere quali sono le differenze tra licenziamento ritorsivo e discriminatorio dobbiamo però partire dal loro significato per poi verificare quali sono i risvolti processuali e, in particolare, quale prova deve fornire il dipendente per difendersi. Lo faremo qui di seguito alla luce di un recente e importante chiarimento della Cassazione. Ma procediamo con ordine.

Cos’è il licenziamento ritorsivo?

Il licenziamento ritorsivo – o anche detto “per rappresaglia” – è quello generato dalla illecita reazione del datore di lavoro a un comportamento legittimo del dipendente. Si pensi al licenziamento quale conseguenza di una rivendicazione salariale avanzata dal lavoratore, dalla richiesta di quest’ultimo di ferie, del diniego al trasferimento in assenza di ragioni produttive o organizzative che, per legge, lo devono giustificare.

Cos’è il licenziamento discriminatorio?

Il licenziamento discriminatorio ricorre quando il datore di lavoro deve adottare un provvedimento che, di per sé potrebbe anche essere lecito ma, nello scegliere il dipendente da mandare a casa, adotta dei criteri illeciti. Si pensi al caso dell’azienda che deve ridurre il personale ma, nello scegliere quali dipendenti mandare a casa, si riferisce solo alle donne agli anziani. La presenza di una ragione giustificativa del licenziamento non ne esclude la possibile natura discriminatoria.

In pratica, il licenziamento discriminatorio si verifica in presenza di una ingiustificata differenza di trattamento. E ciò avviene quando, alla base della volontà del datore di risolvere il rapporto di lavoro, sussiste uno dei seguenti motivi:

  • la gravidanza della donna (il divieto di licenziamento parte dall’inizio della gravidanza, che si suppone avvenuta 300 giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato di gravidanza, e sino al compimento di un anno di età del bambino);
  • l’appartenenza del lavoratore a una determinata categoria politica, religiosa, razziale o ad una minoranza linguistica;
  • per ragioni legate al sesso o all’orientamento sessuale;
  • per questioni di handicap fisico o psichico; 
  • per l’età del lavoratore; 
  • per le convinzioni personali del lavoratore. 

A differenza del licenziamento ritorsivo che può ricorrere in un numero indeterminato di ipotesi (e non codificato dalla legge), quello discriminatorio si configura solo quando sussiste una delle predette cause (si tratta quindi di un numero chiuso). Non vi sono quindi altre ipotesi, oltre a quelle appena elencate, in cui si può parlare di licenziamento discriminatorio. 

Quando il licenziamento ritorsivo e discriminatorio sono nulli?

Il licenziamento ritorsivo è nullo quando il motivo illecito che ha determinato la risoluzione del rapporto di lavoro è l’unica effettiva ed esclusiva causa del recesso. Ciò significa che l’intento ritorsivo del datore di lavoro deve aver avuto efficacia determinativa della volontà di recedere dal rapporto di lavoro. Non ci devono essere altre ragioni. 

Nel licenziamento discriminatorio, invece, non è necessaria la sussistenza di tale requisito: la nullità del licenziamento infatti discende automaticamente dalla legge per aver intimato l’atto di recesso per uno dei motivi tassativamente indicati dalla normativa e sopra elencati. 

Come funziona l’onere della prova nel caso di licenziamento ritorsivo e discriminatorio?

Una volta viste le differenze sul piano sostanziale tra licenziamento ritorsivo e discriminatorio, bisogna analizzare anche le differenze sul piano processuale e, in particolare, per quanto riguarda il cosiddetto onere della prova. 

Vediamo innanzitutto, cosa deve dimostrare il lavoratore nel caso di licenziamento ritorsivo. Nell’impugnare il licenziamento e chiedere al giudice che ne dichiari la nullità, il lavoratore deve provare l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso quando il datore di lavoro abbia almeno apparentemente fornito la prova dell’esistenza della giusta causa di licenziamento. Dunque, l’onere della prova del carattere ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia.

Nel caso invece di licenziamento discriminatorio, tale prova non è necessaria atteso che, in tal caso, ben può il licenziamento essere nullo pur accompagnandosi ad altro motivo legittimo. La nullità del licenziamento discriminatorio discende infatti direttamente dalla violazione di specifiche norme di legge ed è per questo che, al contrario di quanto succede con il licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante. La natura discriminatoria non può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale ad esempio l’esistenza di un motivo economico [1].

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Pubblicato : 16 Novembre 2022 08:30