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Vasco Brondi e la luce della ragione che illumina il mondo agitato

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(@stefano-pistolini)
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Lo si ascolta e viene da dire: questo è un disco prima della guerra. La guerra moderna. Speriamo di no, ovviamente. L’album nascosto dentro una copertina rosso vivo è “Un segno di vita” di Vasco Brondi, il secondo che l’artista attribuisce a sé stesso, una volta concluso il progetto Le Luci della Centrale Elettrica che l’ha fatto conoscere e ne ha fatto una personalità di culto, nella sua particolare declinazione dell’autonomia musicale in Italia.

E – non ci vuole molto per capirlo – “Un segno di vita” è un lavoro gravemente tempestivo rispetto ai tempi che corrono, nei quali si occupa di iniettare un non comune contributo di lirismo, percorrendo descrizioni e sentimenti amari, spesso dolorosi, a volte tragici, davanti ai quali solo la ragione può essere il nostro rifugio.

«Siamo pronti per ripartire e per rintracciare tutti i segni di vita che ci sono. Come scriveva Calvino, adesso più che mai è importante cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio», dice Vasco nello statement con cui presenta il disco e il proprio intento.

Perciò qui c’è una grande orchestra ad avvolgere le sue canzoni fin dall’inizio, accompagnandolo lungo tutti i dieci brani della scaletta, a sancire e a corroborare le ambizioni con cui l’autore ha concepito, scritto e presentato questo lavoro, nella consapevolezza d’essere approdato a un’opera completa, nella quale non serve essere timidi, o guardinghi, o preoccuparsi di tenere a bada la statura della propria espressività.

Come invece potrebbe capitare a più d’uno, quando si canta di argomenti seri della vita, spingendosi sovente oltre la dimensione dell’amore, frugando nella civiltà, nelle differenze di un mondo agitato, nel cammino sconnesso col quale lo traversiamo. Commuove che non ci siano cedimenti nella rappresentazione di Brondi, ma dei quadri viventi animati da un respiro che contiene invocazioni e ispirazioni.

L’atmosfera è grave e sospesa, la sensazione è dell’attesa di un dramma: davvero può tornare la guerra degli stolti, oppure è già tornata, davvero noi tutti possiamo finire, come canta Vasco duettando con Nada in “Fuoco Dentro”, davvero non è più il momento di abbandonarsi alle nostalgie, ma di cercare solo di sopravvivere, aspettando che “arrivino i nostri”?

La voce di Brondi ha una naturale gravità, una tensione non comune e quello stesso dato d’italico trasporto emotivo che conosciamo in Luigi Tenco o in Francesco Bianconi. Ma la prova dell’avvenuta compiutezza nella sua crescita artistica sta nel modo in cui si connette e si miscela con le orchestrazioni, diventandone faro e locomotiva, controllando la responsabilità con cui si deve misurare il poeta musicale. Perché “Un segno di vita” è un lungo soffio d’immagini e di evocazioni a cui abbandonarsi, è un gioco di specchi nel quale finiamo per riconoscerci, è un virtuoso distendersi di elucubrazioni in forma melodica, una continua provocazione intellettuale su un piano qualitativo di cui abbiamo quasi smarrito l’abitudine. Poi, prodigiosamente, a due pezzi dalla fine l’album di Vasco svolta e cambia. Torna a casa, nella provincia ferrarese «sonica», «cosmica» e «meccanica» («che ti uccide o ti eleva»).

Nella dolce e vibrante “Va dove esplode il cuore” Brondi guarda indietro, al passato, e ne “La stagione buona” cerca tracce di serenità perfino dentro gli abusi del nostro tempo imperfetto perché, insieme alla dignità, è la resistenza a contare più d’ogni altra cosa e non bisogna smettere di sognare anche se si è nati dalla parte sbagliata del destino, perché «un giorno ci toccherà morire, ma tutti gli altri no». Parole di fronte alle quali – tanto di cappello – viene da pensare che quella che Brondi oggi mette in musica sia una credibile poesia politica e spirituale.

 
Pubblicato : 16 Marzo 2024 05:45