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“Tutto su di noi” è una lettera d’amore disperata di una vittima di violenza

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(@annalisa-de-simone)
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Romana Petri torna in libreria con “Tutto su di noi” (Mondadori), storia in prima persona di Marzia Marziali e della sua famiglia. Un unico sguardo, dunque, a raccontarci chi è comprimario, pur se nodo focale di ogni contrasto, e cioè le persone che vivono accanto a lei: padre, madre, fratello, più in là un marito, attraverso la forza incontenibile di un umore pieno di grazia, capace d’oscillare fra la commedia e il dramma, la spudoratezza salace e una terribile furia.

L’amore verso ogni forma di volo, che sia letterale come nel precedente romanzo, “Rubare la notte” (Mondadori), in cui Petri ricostruisce la vita dell’autore del “Piccolo principe”, Saint-Exupéry, portando il lettore a fissare le stelle da minuscole cabine di pilotaggio, o che sia figurato, quanto il volo di libertà dalla dittatura sullo sfondo di una Lisbona magica e decadente, l’ascesa in cielo di una madre, il salto verso una nuova vita da parte dei figli, come accade nella saga familiare dei Dos Santos, perfino il volo d’emancipazione siglato dall’arte, dal talento nel disegno di uno dei personaggi più accattivanti usciti dalla penna di Petri, la pittrice Albertini, ecco, questa forma d’interesse per il volo, fuga ascendente dai rapporti nocivi e discendente verso gli abissi umani, si rinnova in questo romanzo con particolare ruvidezza.

La storia ruota intorno a una famiglia asfissiante e crudele di stanza nelle adiacenze di Roma, in periferia, dove Marzia si trova a crescere e a reagire. Estenuanti allenamenti in palestra forgiano il suo fisico alla lotta greco-romana, un modo per prepararsi alla violenza, se sarà necessario, per sentirsi padrona almeno di questo, i muscoli, dato che non può esserlo di tutto il resto. Il rapporto di coppia dei genitori, lui vile e brutale, lei incurante ed egoica, ha nel mezzo un fratello sempre in disparte. Non solo il presente, l’efferatezza di alcuni modi di essere e di rapportarsi agli altri, a raggiungere la protagonista sarà anche il suo passato non vissuto, quello anteriore alla nascita: «Tutte queste cose me le avete raccontate voi perché eravate di un’altra generazione, quella che non aveva nemmeno un briciolo di inconscio, e del male che potevate fare non avevate la minima idea». Sottile tentativo di assolvere i suoi genitori? Chissà.

È questa l’essenza di Marzia: trovarsi in perenne bilico fra il bisogno di chiudere una volta per sempre con il dolore e quello di vendicarsene, ricambiando la violenza con altra violenza. È in tale disperata ambiguità che si accende l’amore del lettore per una bambina, poi una ragazza, e ora una donna, persa nel sogno impossibile della perfezione – l’uomo perfetto, il cane perfetto – nel terrore di pretenderla troppo per sé, quasi non si sentisse degna, ma pure nella densità di un mondo onirico con cui controbilanciare tutti i torti.

Romana Petri tratteggia i suoi personaggi senza indecisione, non ci sono remore davanti all’uso di tinte così forti, una temperatura sempre incandescente, l’angoscia che non smette di alimentarsi di nuove terribili scene. Non c’è misura lì dove tutto si tiene in perfetta armonia. Non ce n’è in un padre, non solo orribilmente meschino, ma anche ripugnante nell’aspetto, con quelle gambe corte, troppo magre e pure storte che sembrano essergli state montate per sbaglio sotto il busto. Non ce n’è in una madre indolente che scambia la figlia per l’amica con cui lagnarsi dei continui tradimenti di suo marito, capace di vedere solo sé e mai i danni che provoca. Non c’è misura nella protagonista, che si innamora con disperazione e che si dispera per non essere abbastanza rabbiosa, almeno non tanto da tramutare in azione i suoi istinti omicidi.

La bravura di Petri risiede in questo: nel dare vita a una vittima che rifugge da ogni cliché. Marzia potrebbe piangere ma s’infuria, potrebbe lasciarsi salvare dal marito che la porta via di casa, ma lo lascia e torna da sua madre, potrebbe fare del male a sé stessa ma, impugnata un’arma, è al padre che la indirizza contro, seppure finisca per lisciarlo. «Avrebbero dovuto tenermi fuori. Nessuno dei due avrebbe dovuto parlare, nemmeno la mamma che ora mi piangeva davanti disperata per i suoi dolori di donna tradita. Probabilmente in quel momento decretai, oltre alla morte di lui, anche quella di lei».

L’impeto monta a ogni svincolo della storia, e altrettanto riesce a fare quell’universo che ha la sostanza dei sogni e delle proiezioni con cui costruire una fuga mentale dalle ingiustizie. I traumi subìti nella propria infanzia non svaniscono con la stessa andatura con cui a svanire sono i giorni o gli anni. E così Marzia, prima di cedere al sonno, lo dice: ti amo. «Quel ti amo è una necessità, è un calibrare e voler aggiustare le inaggiustabili cose del passato». Il desiderio di dare un nuovo corso ai ricordi diventa un ulteriore muscolo di un corpo già fasciato dalla forza. E altrettanto, l’umano bisogno di comprendere e perdonare. Chiudere, finalmente. Passare oltre.

Non è interessante scoprire se Marzia saprà cambiare, in questa parabola di crescita, o finirà per fallire. Ciò che invece può esserlo di sicuro è il talento di un’autrice che ha scritto, in fondo, una lettera d’amore disperata. Con questo romanzo, Romana Petri è stata capace di narrare in modo tanto struggente l’amore, concedendosi di far agire solo il suo opposto, l’indifferenza e la cattiveria, e in questo contrasto dolce amaro ha saputo consegnarci tutta l’inesauribile speranza di chi è stata vittima della violenza.

 
Pubblicato : 9 Marzo 2024 05:45
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