Nel sud il declino demografico si intreccia a quello economico
Nel 2022 in Italia è stato di 1,24 il numero di figli venuti al mondo per ogni donna in età fertile, la stessa cifra del 2020 e minore di un centesimo di quella del 2021. È l’ennesimo record negativo, che è ancora più evidente se usiamo i numeri assoluti: sono stati 393.333 i nuovi nati, circa diciassette mila in meno dell’anno precedente e quasi centoquarantuno mila in meno che dieci anni prima.
Perché a influire ed accelerare il declino demografico è anche un altro fattore, la diminuzione delle potenziali madri, che interessa quasi tutta Italia e in particolare le regioni del Mezzogiorno. Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, infatti, non sono state solo caratterizzate da un tasso di fertilità non molto diverso da quello medio, ma anche da una continua emorragia di giovani che ha anticipato in queste aree quel calo della popolazione che ora interessa tutto il Paese.
L’emergenza demografica quindi peggiora, ma quest’anno se ne parla ancora meno che un anno fa, nonostante sia al governo una maggioranza che ha voluto ribattezzare il Ministero per la Famiglia e le Pari Opportunità in Ministero per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità. Ci si abitua, si dà per scontato questo declino come ormai abbiamo dato per scontato il declino economico o la corruzione o l’evasione, salvo lamentarcene di tanto in tanto.
Eppure le conseguenze sono concrete, toccabili con mano, soprattutto se le osserviamo in un’ottica di lungo periodo. Tra il 2000 e il 2022 l’aumento mediano degli occupati nelle centinaia di regioni in cui è divisa l’Europa è stato del 13,2 per cento, ma nel nostro Mezzogiorno, laddove si è verificato, è stato molto più piccolo, +2,9 per cento in Campania, +3,4 per cento in Puglia, mentre in Calabria, Sicilia, Molise vi è stato addirittura un calo. Simili i dati se il termine di paragone è il 2012, cinque regioni su otto del Mezzogiorno hanno visto il segno meno. Nell’Europa Occidentale, quella pre-1990, solo Piemonte, Liguria, e alcune aree rurali della Francia e della Finlandia, molto meno popolate, hanno avuto numeri simili.
Se poi il confronto è con il periodo pre-pandemico è ancora più evidente l’effetto del calo demografico, che qui si associa a quello dell’economia. Nel Mezzogiorno solo la Puglia si salva dal segno meno, che invece caratterizza quasi tutto il Paese, tranne poche regioni. In Calabria la riduzione del numero degli occupati è stata del 3,8 per cento in questi anni, in Sardegna del quattro per cento. Anche in Germania, come nel Nord Italia, si è assistito a una perdita di lavoratori, prima della ripresa del 2023. Tuttavia come nel nostro Settentrione si partiva da livelli molto più alti.
In Sicilia, Calabria, Campania l’emorragia ha interessato un territorio in cui il tasso di occupazione è, secondo gli ultimi dati, inferiore al quarantacinque per cento, mentre nell’area di Friburgo e dell’Alta Baviera ha colpito aree in cui arriva all’ottanta per cento.
Ha piovuto sul bagnato, come spesso capita. Negli ultimi dieci anni c’è stata solo un’area d’Europa in cui si sono incrociati un basso tasso di occupazione e una variazione degli occupati molto deludente, in alcuni casi negativa, il Mezzogiorno, come i dati di Calabria, Sicilia, Campania dimostrano. Al contrario alcune aree dell’Est della Germania, come Chemnitz, hanno visto una riduzione dei lavoratori ma un tasso di occupazione maggiore della media.
All’opposto le regioni spagnole che partivano da dati molto negativi dal punto di vista del mercato del lavoro, come l’Andalusia, hanno però segnato un ottimo incremento del numero degli occupati, del 21,7 per cento.
È proprio l’esempio di altre aree svantaggiate, le più svantaggiate dei rispettivi Paesi, che dovrebbe farci capire cosa è successo al nostro Mezzogiorno e cosa dovremmo evitare.
Prendiamo come riferimento la Campania, l’Andalusia e il Brandeburgo, land della Germania orientale. Tutte e tre hanno subito un’emorragia dell’occupazione giovanile dall’inizio del secolo, questo le accomuna, e tuttavia l’Andalusia ha visto un aumento molto più pronunciato di quella complessiva, che riguarda chi ha tra i quindici e i sessantaquattro anni, +41,4 per cento contro il +2,9 per cento della Campania e il +6,9 per cento del Brandeburgo. Questo perché a differenza del nostro Mezzogiorno è riuscita a evitare il declino demografico attirando immigrazione quasi come il resto della Spagna e, anzi, in alcune aree come la provincia di Almeria anche di più, grazie alla presenza di un’agricoltura moderna e avanzata che nel Sud Italia non si è vista.
Dal canto suo il Brandeburgo, che pure ha sofferto un declino demografico più simile a quello del nostro Mezzogiorno, è riuscito maggiormente a sfruttare le risorse umane più anziane, gli occupati tra i cinquantacinque e i sessantaquattro anni, sono cresciuti del 187,8 per cento, mentre in Campania del 102,7 per cento. Hanno avuto un peso qui le migliori politiche tedesche per la formazione, a livello locale e federale.
Il tasso di occupazione di questo segmento più anziano è infatti decollato, venti anni fa era simile a quello della Campania o dell’Andalusia, intorno al trentacinque per cento, ed è arrivato al 74,7 per cento del 2022, mentre nelle altre due regioni si è fermato rispettivamente al 46,1 e al 47,4 per cento.
L’Andalusia si è però rifatta, almeno parzialmente, nel campo dell’occupazione giovanile. Considerando solo coloro che hanno tra i venticinque e i trentaquattro anni, il periodo cruciale in cui si costruisce la propria vita, ad avere un lavoro nel Sud della Spagna è una quota della popolazione di venti punti maggiore di quella campana, il 66,4 per cento.
Insomma, se nel Sud e nelle Isole il declino demografico si è intrecciato con quello economico, con l’uno che ha aggravato l’altro, è stato proprio per la mancanza di alcuni degli elementi che in altre aree fragili d’Europa, invece, sono stati presenti.
Dai dati tedeschi si comprende l’importanza, in un contesto di emigrazione e riduzione delle nascite, di coinvolgere al massimo i segmenti più anziani del mercato del lavoro, e da quelli spagnoli si intuisce come essere una delle regioni più povere del Paese non sia un destino ineluttabile, è possibile seguire la crescita del resto del Paese con l’uso oculato dei finanziamenti europei e i giusti investimenti. Non a caso secondo Eurostat tra 2015 e 2021 l’aumento del Pil andaluso è stato solo dello 0,6 per cento inferiore a quello medio spagnolo, mentre quello campano nello stesso periodo è stato in ritardo rispetto a quello italiano di due punti. Qualcuno riuscirà a prendere ispirazione?
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