L’omofobia della politica e delle istituzioni libanesi rischia di sfociare in una violenta repressione
Mai come in quest’estate il Libano è stato e continua a essere teatro di scontro sul fronte dei diritti e delle tutele delle persone Lgbt+. Ad alzare i toni ci ha pensato Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, incitando esplicitamente alla repressione violenta del «fenomeno» omosessualità, da affrontare collettivamente con tutti i mezzi necessari, senza alcun limite». In quest’appello, lanciato via social il 22 luglio, il leader del partito sciita aveva infatti invocato l’applicazione della legge islamica, secondo la quale, a suo dire, una persona omosessuale, «anche se single, dovrebbe essere uccisa».
Sulla questione sarebbe ritornato sette giorni dopo, in occasione della solennità annuale dell’Ashura, bollando in diretta televisiva le relazioni tra persone dello stesso sesso quale «perversione sessuale» e «pericolo reale» fino a ravvisare nella stessa esistenza di gay e lesbiche una «minaccia per la società». Ne è seguita da allora un’ondata inarrestabile di insulti e minacce di morte via social nei riguardi di numerose persone Lgbt+.
Ma i due interventi di Hassan Nasrallah sono pur sempre da leggere anche come la nervosa risposta al progetto di legge, depositato, proprio in luglio, da nove parlamentari. In esso si chiede l’abrogazione dell’articolo 534 del Codice penale che punisce con la reclusione fino a un anno «qualsiasi rapporto sessuale contrario all’ordine di natura». Nonostante l’indefinitezza della norma e cinque sentenze, che, emesse tra il 2007 e il 2018, hanno stabilito la piena liceità delle relazioni consensuali tra persone dello stesso sesso, tale articolo è ancora largamente interpretato come fondamento giuridico del perseguimento penale di persone omosessuali e transgender.
Non meraviglia pertanto che a metà agosto Abdel Massih, uno dei nove proponenti, abbia ritirato la sua firma a seguito della massiccia campagna, ingaggiata via social da autorità politiche e religiose libanesi. Né tantomeno meraviglia che il 16 e il 17 agosto siano stati rispettivamente presentati da Mohammad Mortada, ministro della Cultura ed esponente dello storico partito sciita Amal, e da Ashraf Rifi, parlamentare indipendente sunnita ed ex direttore generale delle Forze di Sicurezza Interne, due differenti progetti di legge per criminalizzare la promozione della «devianza/perversione sessuale» e dell’omosessualità con pena detentiva fino a tre anni e una multa minima di cinque milioni di lire libanesi.
Inoltre, se il testo Mortada prevede un’estensione dell’oggetto del reato a «qualsiasi atto che cerchi di promuovere la possibilità di cambiamento di sesso», l’altro propone una modifica dell’articolo 534 col divieto specifico di «qualsiasi relazione, atto o rapporto sessuale contrario all’ordine della natura tra uomini o tra donne, indipendentemente dal consenso». Il tutto non solo in barba alle già accennate sentenze, ma anche in palesa violazione dell’impegno assunto dal Libano nel 2021 – in sede di Revisione periodica universale presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite – per abrogare il famigerato articolo 534.
Ma il ministro della Cultura aveva già dato il meglio di sé agli inizi di agosto, chiedendo la messa al bando del film “Barbie” dalla sale cinematografiche libanesi per il carattere promozionale dell’omosessualità e gli «effetti devastanti soprattutto sui minori». E sempre nel mese scorso, il 23 agosto precisamente, si è toccato l’apice del parossismo anti-Lgbt+, quando una ventina di uomini del gruppo paramilitare cristiano Jnoud el-Rabb (“Soldati del Signore”) hanno aggredito alcune persone all’esterno del bar Om, nel quartiere beritense di Mar Mikhael, e cercato d’assaltare il locale in cui era in corso lo spettacolo delle drag queen Latiza Bombé ed Emma Gration. Il tutto accompagnato da urla minacciose: «Vi avevamo avvertiti, questo è solo l’inizio» e «Non permetteremo la promozione dell’omosessualità nel paese di Dio». L’intervento della polizia ha evitato il peggio: in ogni caso, nessuno degli aggressori è stato arrestato, mentre le persone all’interno del bar sono state sottoposte a serrati interrogatori da parte degli agenti.
Come spiega a Linkiesta Francesco Mazzucotelli, docente di Storia della Turchia e del Vicino Oriente all’Università di Pavia, quanto sta succedendo in Libano risponde in realtà a quella «tendenza generalizzata in Tunisia, Egitto, Iraq, Kuwait ad aizzare il panico morale: non solo sulle questioni Lgbt+, ma anche su film come Barbie o cantanti donne eterosessuali, accusate di indecenza o di stimolare l’immortalità, qualsiasi cosa ciò voglia dire. Tutto questo nasconde in maniera eclatante i problemi di autoritarismo, corruzione e crisi economica di questi Paesi. È veramente un meccanismo d’indicazione del capro espiatorio». Soprattutto in Libano, dove gli attacchi alle persone Lgbt+, indicate come minaccia e pericolo sociale, s’inseriscono nel contesto di quel collasso economico senza precedenti, che ha gettato quasi l’ottanta per cento della popolazione al di sotto della soglia di povertà.
Collasso, ça va sans dire, causato dalle stesse autorità e partiti al potere da anni, a partire dall’Fpm dell’ex presidente cattolico maronita Michel Aoun. Ricordando come «lo sfruttamento del tema omofobo sia trasversale in Libano tra le diverse fazioni», Mazzucotelli osserva giustamente che «il discorso è in parte religioso per le argomentazioni e i simboli usati, ma la dinamica è politica. Interessante ricostruire chi è il finanziatore di questi “Soldati del Signore”: un protagonista della cricca politico-finanziaria che ha portato il Libano al disastro». Vale a dire, Antoun Sehnaoui, banchiere, presidente del cda della Société générale de banque au Liban e produttore cinematografico. Per non parlare poi, «oltre agli effetti sulla comunità Lgbt+, di un aspetto particolarmente problematico qual è quello dell’incremento di milizie e gruppi armati nel Paese».
A proposito del gruppo paramilitare Jnoud el-Rabb, legato a movimenti d’estrema destra cristiana e fieramente avverso a Hezbollah, va ricordato come la sua attività, sia pur a livello di campagne social, sia iniziata nel 2019 in segno di protesta contro la band rock Mashrou’ Leila, il cui frontman Hamed Sinno è dichiaratamente gay, e di boicottaggio di un loro concerto a Jbeil in segno di protesta contro «le loro canzoni che, in maggioranza, minano – come ebbe a dire l’eparca maronita Michel Aoun – i valori religiosi e umani e attaccano i simboli sacri del cristianesimo».
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