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L’improvviso e spietato cinismo che ignora l’orrore e le sue vittime

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(@massimo-venier)
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Partiamo dalla foto, dal video o dal divano? Partiamo dalla foto.

C’è una foto, sul Guardian, di una ragazza. Ha ventiquattro anni, è seduta sul davanzale di una finestra e guarda l’obiettivo, non sorride, ha una mano sui capelli, una bella maglietta azzurra. Lo sguardo – intenso e morbido al tempo stesso, chissà quanti sforzi ha fatto per trovare lo sguardo giusto, oppure no, le è venuto naturale, chissà – è dedicato al suo fidanzato, che la sta fotografando.

Alle sue spalle, un vaso di fiori rossi, semplici e freschi. Sullo sfondo, un bel palazzo illuminato dal sole. È una ragazza normale. Carina, semplice. È nostra figlia, nostra nipote. La nostra vicina di casa. La ragazza che ogni tanto viene a tenere i bambini quando andiamo al cinema. È noi.

Il sole che illumina il palazzo dietro di lei è il sole di Israele. La ragazza che guarda l’obiettivo si chiama Inbar e dal 7 ottobre è ostaggio dei terroristi di Hamas. Era al Nova, il festival musicale da cui i terroristi hanno deciso di far partire il loro attacco ad Israele, uccidendo duecentosessanta persone, duecentosessanta ragazzi.

Quando tutto è iniziato lei ha mandato un messaggio a una sua amica per dirle di evitare le strade, dove c’erano quelli che sparavano. Poi si è nascosta insieme ad altri due ragazzi tra i cespugli. Li hanno trovati.

Conosco la sua storia perché il suo ragazzo non si dà pace, si è attivato per fare in modo che si salvi, che la salviamo. Lui ha ventisette anni, si capisce lontano un chilometro che è innamorato perso.

Non ha ancora avuto la forza di guardare il video in cui i terroristi portano via Inbar. I suoi genitori e quelli di Inbar gli hanno detto di non guardarlo, quel video. Per salvare almeno lui. Io sono i suoi genitori e i genitori di quella ragazza. Lo capisco con una chiarezza che difficilmente qualcuno potrà scalfire.

C’è anche un altro video, tra i tanti. È il video di un bambino palestinese. I suoi occhi meravigliosi e profondi sono pieni di orrore, di terrore. Se sei un uomo non puoi guardare quegli occhi senza sprofondare nell’abisso. Trema, il bambino, è l’unico movimento che il suo corpo gli concede, per il resto è paralizzato dalla paura, dall’indicibile, dall’intollerabile.

Poi una mano lo sfiora, lo accarezza, lo avvicina a sé. È la mano di un volontario, che delicatamente gli fa sentire un po’ di calore, piano piano, finché sente che c’è ancora uno spiraglio, una speranza. E il bambino cede, si lascia abbracciare, appoggia la testa sulla spalla del volontario. E finalmente scoppia a piangere.

Lacrime strazianti, dentro le quali ci sono cose e immagini e paure che non possiamo neanche lontanamente immaginare. Lacrime trattenute da chissà quanto, infinite, salvifiche. Che Dio, qualsiasi Dio, protegga quell’uomo che è riuscito a farlo piangere e quel bambino che si è fidato di lui e si è salvato.

Non posso più guardare quel video, mi fa troppo male, e contemporaneamente non posso smettere di guardarlo. Perché ogni volta non riesco a non pensare che quel bambino è mio figlio e io sono morto chissà come e chissà dove e l’ho lasciato solo, imprigionato nell’orrore. E questo mi uccide. Ma poi voglio vedere quel volontario, che chissà da dove arriva e cosa lo muove, che lo salva.

E ora arriviamo al divano. Quello dove siamo seduti un po’ tutti, qui al calduccio del privilegio, delle guerre viste in tv, lette sul Guardian, con l’abbonamento da benestante democratico.

«Facile parlare dal divano». Non è quello che ci diciamo sempre tutti? Ognuno dal suo divano?

Ed è proprio da qui, dal mio divano, il posto che mi è stato assegnato, che mi faccio delle domande a cui non so rispondere.

La prima è: perché centinaia, migliaia di giovani italiani, ragazzi che molto più facilmente di me potrebbero identificarsi in quella ragazza di ventiquattro anni così identica a loro – i sogni, il fidanzato, i selfie, il futuro, la musica, le feste, la vita – sfilano difendendo chi ha ucciso i suoi amici e rapito lei?

E perché, mi chiedo dal divano, così tante persone della mia età, genitori che darebbero la vita per i loro figli, zii che non si addormentano se non danno la buonanotte ai nipoti, persone che si commuovono solo perché i figli dei loro amici li salutano dopo cena in pigiama dandogli un bacino e chiamandoli per nome prima che vadano via, perché, mi chiedo, queste persone diventano improvvisamente ciniche, spietate addirittura, e contemplano l’orrore come un accettabile effetto collaterale e fingono che i bambini morti, orfani, feriti, straziati di dolore non esistano o, peggio, non contino?

E perché non si accorgono di loro, della loro rabbia disperata, finche quei bambini non crescono e non imbracciano un fucile puntato contro di loro?

 
Pubblicato : 23 Ottobre 2023 04:45