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L’estetica del non finito e i monumenti alle aspettative deluse

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(@micol-de-pas)
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Come con i sogni, c’è un problema di rimozione: il maifinito, il non finito, l’incompiuto architettonico viene dimenticato, non visto. Come dire che non abbiamo la consapevolezza di tutti quegli edifici – costruiti dai singoli individui oppure dalle grandi imprese delle opere pubbliche – che non sono mai stati completati e punteggiano il paesaggio come rovine di un tempo presente, anzi sospeso. Un incubo. Un sogno di dilatazione temporale che però si consuma nella stasi di quel tempo: nulla accade. Eppure quei resti sono così tanti e così caratteristici del nostro Paese da costituire uno stile architettonico nazionale. La Biennale Architettura 2023 se n’è accorta grazie al collettivo di architetti che si raduna sotto il nome di Fosbury e che ha avuto l’onore di esporre nel padiglione Italia proponendo nove attivazioni di realtà abbandonate. Un concetto interessante, soprattutto se si conoscono i presupposti di questo lavoro: ripensare l’architettura non come creazione ex novo, ma come riuso del patrimonio esistente. Una riattivazione, appunto. 

C’è un’estetica nel non finito, nel frammento, che ha a che fare con l’immaginazione, la speranza, forse. C’è un’estetica visiva, narrata spesso nella fotografia d’autore, che parla di quell’insanabile contrasto tra natura e cultura, intesa come manufatto dell’uomo, con quella poetica malinconica volta a mostrare come la vegetazione si riprenda il territorio anche dopo che è stato violato, circondando, infestando e anche abbellendo carcasse di cemento, asfalto, ferro. Oppure l’estetica di un recupero artistico, visionario, del prodotto abbandonato per renderlo parte della performance. Poi ci sono le inchieste su appalti pubblici e malaffare, soldi terminati troppo presto oppure investiti in opere mai entrate in funzione.

E – non certo ultime – ci sono le condizioni di vita in luoghi un tempo popolosi e poi svuotati dall’emigrazione, disegnati dal non finito individuale e famigliare. C’è il tempo storico, poi. Quello degli ultimi sessant’anni della storia del Paese fatti di amnesie e rimozioni, di moralismi, di tentativi estetizzanti o aspirazioni demolitrici. Ma il brutto sogno continua in quella dilatazione statica, impossibile nel reale, di un tempo fermo che si diffonde, uno standby che però deve fare i conti con il trascorrere temporale che è inevitabilmente avvenuto lo stesso: sessant’anni.

Un’indagine visiva sugli abusi edilizi calabresi (Ph. Angelo Maggio)

A farci i conti adesso sono le nuove generazioni che, come i Fosbury, si dichiarano figlie del momento storico attuale: «Rappresentiamo una generazione», scrivono nel libro “Spaziale” (Humbold, 2023), «cresciuta in un contesto di permacrisi. Il neologismo, eletto nel 2022 parola dell’anno dal dizionario Collins, esprime una dimensione ricorrente di eventi catastrofici che descrive perfettamente il quadro congiunturale del ventennio passato. […] I dati non producono empatia, ma restituiscono un quadro singolare dello stato dell’arte. Da un lato, il settore delle costruzioni è responsabile a livello mondiale del 39 per cento della quantità di anidride carbonica dispersa nell’aria, del 36 per cento del consumo di energia elettrica, del 50 per cento dell’estrazione di materie prime e del 33 per cento del consumo di acqua potabile (2020, Global Status Report for Building and Construction); dall’altro (specialmente nel nostro Paese), all’aumentare del consumo di suolo (dai dati del 2021 del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente emerge che in Italia si sono consumati 2,2 metri quadri di suolo al secondo) corrispondono una contrazione del mercato potenziale intercettato e un’insoddisfazione cronica de gli addetti ai lavori (secondo una ricerca del Censis). Una relazione inversamente proporzionale tra crescita e sviluppo che pone le basi per un’inedita alleanza tra ambiente e operatori del settore». 

La lettura prosegue sino alla definizione del movimento, cui i Fosbury appartengono, degli spazialisti: «Quelli che definiremo “Spazialisti” – mediatori creativi tra pragmatismo ed emozione (nelle parole di Harriet Harriss, Rory Hyde, Roberta Marcaccio) –, sono coloro che sfruttano gli strumenti codificati della progettazione per mettere in discussione le condizioni sociali dei luoghi in cui intervengono. Abituate per formazione a operare in un regime di scarsità, queste pratiche coltivano la transdisciplinarità come mezzo per espandere i limiti dell’architettura a campi finora poco esplorati. Spazialisti, oltre le particelle catastali; oltre la ricerca dell’invenzione, della novità, per riscoprire lo spazio come luogo fisico e simbolico, sistema di riferimenti conosciuti e territorio delle possibilità». Così il collettivo di architetti giunge a proporre le sue attivazioni delle rovine contemporanee. 

Il pontile ex Sir di Lamezia Terme, Catanzaro (Ph. Tobia Faverio)

Prima di loro ci sono stati gli artisti di Alterazioni Video, un collettivo che aveva fatto parlare di sé in seguito a una serie di azioni artistiche compiute in Sicilia, a Giarre, nella valle dei Templi, dove si conservano svariati esempi di opere pubbliche interrotte. Sono stati loro a parlare della nascita di uno stile dell’incompiuto, inizialmente siciliano, per poi risalire la Penisola e definire gli elementi costitutivi dello stile architettonico più importante in Italia dal Secondo dopoguerra a oggi e documentato, nel loro volume Incompiuto. La nascita di uno stile (Humboldt, 2018), da un portfolio fotografico di Gabriele Basilico, per giungere a proporre l’istituzione di un parco: una monumentalizzazione dell’architettura interrotta da proteggere. Non sono mancate le critiche, anche perché il monumento mina alla base l’essenza del non finito: finirlo, per esempio, usarlo, magari, attivarne altre funzioni, eventualmente. Il monumento avrebbe certamente mummificato, come scrive Gaetano Licata nel suo bellissimo libro “Maifinito” (Quodlibet, 2014) il potenziale. 

Potenziale di chi? Qual è l’identità del “maifinito”? Le categorie classiche dell’edificare legate alla funzione specifica che l’edificio (ma anche il ponte, la strada…) avrebbe svolto una volta completato, identificano l’oggetto. Cioè ne dichiarano l’identità. Ma l’identità è a sua volta qualcosa di fluido. Per dirla con Licata: «L’identità, anch’essa per fortuna è un maifinito, che si evolve nel tempo, ed è la somma di ciò che una cultura produce, di buono e di meno buono, compresi i modi più o meno creativi di farci i conti». Alla mappatura indispensabile messa a punto da Fosbury e Alterazioni Video del non finito, si aggiunge il lavoro di Giulia Menzietti, Amabili resti d’architettura: frammenti e rovine della tarda modernità italiana (Quodlibet, 2017), dedicato alle opere disegnate da grandi architetti e mai inaugurate. Un non finito in un certo modo identitario: edifici realizzati che mai hanno potuto esercitare la funzione per cui sono stati pensati. 

I resti dell’ippodromo di Portigliola (Ph. Angelo Maggio)

«Dovevano essere architetture gloriose perché d’autore», spiega Menzietti, «nate con ambizioni molto forti che poi hanno fatto la fine delle carcasse e degli ecomostri». La storia è quella di amministrazioni pubbliche che, a fronte di fondi disponibili, chiamavano i big per realizzare un’opera pubblica nel proprio comune spesso sovradimensionata, quasi sempre inutile. «C’è una natura ambigua intorno a queste costruzioni», continua Menzietti, «perché si tratta di opere meravigliose che hanno scritto pagine stupende del pensiero architettonico, ma incapaci di considerare il contesto in cui andavano inserite. E questo, come lo giudichiamo?», si chiede la storica, che quindi ragiona sulla possibilità di attribuire nuove funzioni a questi edifici. 

«Il progetto allora era espressione di un’ideologia e l’architetto un intellettuale che comunicava al mondo la propria visione. Le pubbliche amministrazioni, dunque, sceglievano il progettista dimostrando il proprio schieramento politico. Per queste ultime erano primari il costo dell’opera e il nome dell’architetto, non la sensibilità a rispondere alle esigenze del territorio». Sono sorti teatri per 1.800 persone in comuni di 4.000 anime, chiese incapaci di rispondere alle funzioni del culto, palazzetti che non hanno mai accolto uno sportivo… amabili resti. Da demolire? «Difficile, prima di tutto perché farlo ha costi elevatissimi. E poi si tratta di un pezzo del patrimonio collettivo. Oggi si parla di riciclo, ma fa paura intervenire su progetti di autori importanti. Dunque non resta che fare dell’opera un palinsesto che consideri quello che doveva essere, quello che è e quello che potrebbe essere, per trovare altri linguaggi, anche temporanei». 

«Quelle case non finite che punteggiano la Calabria sono monumenti alle aspettative deluse», spiega Angelo Maggio, fotografo etnografo e geometra delle ferrovie regionali in Calabria: «Chi le ha costruite voleva fare star meglio i propri figli e io sto dalla sua parte. L’idea del non finito come risorsa da riusare è radical chic». Maggio si schiera chiaramente, sottolineando la differenza tra l’incompiuto individuale e quello delle opere pubbliche. Lui ha cominciato a lavorare sull’incompiuto in seguito all’analisi delle sue foto, scattate durante le feste e le processioni in alcuni centri calabresi. 

La variante alla SR429 nel tratto Empoli-Castelfiorentino (Ph. Tobia Faverio)

«La foto scatenante è stata fatta a San Luca durante la Settimana Santa nel 2004. Si vede un cristo portato in processione su uno sfondo di un non finito. Non volevo offendere la popolazione così ho cominciato a mostrarla ai cittadini per avere il loro parere. Piace a tutti. Io la trovo molto violenta e così comincio a interrogarmi sul perché, per arrivare a una risposta molto semplice: agli abitanti piace perché si vede il loro paese. Punto. Nessuno vede il brutto nella normalizzazione del non finito». Nell’incubo, quello della stasi che si dilata nello scorrere inevitabile del tempo, succede anche questo: il brutto e l’abuso sono il paesaggio e diventano invisibili perché normali. 

Per Maggio è un problema sociale, politico e culturale, non ultimo per l’effetto formativo che ha sui giovani: i ragazzi crescono in assenza del bello, senza capire che il non finito rappresenta il degrado. I suoi monumenti alla delusione sono infatti sogni andati in frantumi, a cominciare da quello che ne era il motore, riunire le famiglie dopo l’emigrazione, in un ritorno sperato e mai realizzato che ha trasformato il territorio in una città fantasma. Meglio, per Maggio, la demolizione. «I paesi ormai sono vuoti, che senso avrebbe riusare cose mai usate fino a ora? Che senso avrebbe dare la possibilità di abitare questi edifici se le case nei paesi sono disabitate? Credo che andrebbero demoliti per fare spazio al vivibile e cercare di rispondere alla domanda centrale oggi: cosa dobbiamo fare per far vivere meglio le persone?». L’incubo allora potrebbe finire.

 
Pubblicato : 26 Febbraio 2024 05:45