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La straordinaria carriera di uno dei più grandi fotografi di guerra di tutti i tempi

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(@valentina-agostinis)
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C’è un po’ di Michelangelo Antonioni nella straordinaria carriera di Don McCullin. Il fotografo che ha attraversato con i suoi chiaroscuri tutte le tragedie della seconda metà del Novecento è finito poi esausto, a riposare occhi e anima nell’isolata campagna inglese, a immortalare i più lirici paesaggi offerti da quelle latitudini, rigorosamente privi questa volta di umani. Solo luci crepuscolari, ombre e vegetali (la grande retrospettiva è al Palazzo Esposizioni dal 10 ottobre al 28 gennaio). McCullin parla poco del suo contatto con il nostro regista, restio a raccontare quell’esperienza del 1966 sul set di “Blow up”, rimandando a chi gli porge qualche domanda a proposito alla sua autobiografia “Unreasonable Behavior”, uscita ormai nel lontano 1990.

Poche righe per descrivere quell’incontro con alcuni uomini della produzione che lo vennero a cercare a casa, proponendogli un contratto per scattare alcune fotografie che dovevano apparire nel film, per un compenso di cinquecento sterline. Una somma considerevole allora per un giovane fotografo che aveva da poco iniziato a pubblicare nei periodici londinesi. E nelle stesse pagine non esita a raccontare di aver avuto un certo imbarazzo nel sapere che il suo lavoro avrebbe incrociato quello che nel film è opera di un fotografo che sta agli antipodi della sua cifra stilistica, quell’Hemmings che attraversa Londra con la sua decappottabile, a caccia di negozi d’antiquariato da acquistare, e si impegna in un corpo a corpo con modelle bellissime nel suo loft a Holland Park. Un vero swinger, simbolo di quella nuova classe creativa che insieme ad artisti, designer, band musicali, dà impulso alla frenetica città dei favolosi anni Sessanta. Uno di quei maghi della fotografia che Antonioni definisce, nelle note di produzione del suo film «i nuovi persuasori, coloro che hanno inventato nuovi canoni di bellezza» e li diffondono nei supplementi a colori che anche i quotidiani più tradizionali ormai mettono in campo, recuperando proprio dalle riviste di moda un nuovo segmento di lettori.

McCullin ha cura di un altro mondo, arriva da una periferia infestata da gang che lo bullizzano, ma che riesce a neutralizzare con l’unica risorsa che si trova tra le mani, una macchina fotografica che punta verso la strada e i suoi personaggi.

La prima foto che pubblica arriva per caso alla redazione dell’Observer: della gang ripresa nel tragico palcoscenico di un edificio sventrato a Finsbury Park, periferia nord di Londra, fa parte un tizio che la polizia ha appena arrestato per omicidio, e quella è la sua unica immagine, un vero scoop per il settimanale. Uno scoop portato da un ventenne alle prime armi, che ha imparato il mestiere come assistente fotografo nella Raf ed è ben deciso a proseguire sulla strada del reportage internazionale.

Senza alcun accredito va a Berlino nel 1961 e fotografa la costruzione del Muro, gruppi di berlinesi dell’Ovest che salutano attoniti chi si è ritrovato in poche ore dall’altra parte, soldati americani al Checkpoint Charlie. Un reportage che gli procura i primi premi, ma la svolta arriva grazie all’incarico ottenuto dall’Observer per coprire la guerra a Cipro e vincendo il primo premio del World Press Photo con un ritratto che alcuni critici paragonano per i chiaroscuri e la tragica espressione della donna in primo piano, a un quadro di Goya.

Sta scoppiando la guerra in Vietnam e nel 1965 McCullin parte inviato dall’Illustrated London News, la prima di una serie di trasferte che lo promuovono, negli anni a venire, come uno dei più grandi fotografi di guerra di tutti i tempi. Sono questi i mesi in cui Antonioni a Londra sta preparando il suo film, ma per costruire il suo protagonista ha bisogno di fonti dirette, di sapere come si muovono, pensano, parlano, amano, i fotografi che le riviste hanno ingaggiato per diffondere il nuovo stile di cui si parla ovunque (la British invasion con i Beatles in testa è arrivata anche oltre Oceano). Al Sunday Times Magazine c’è chi ne ha scritto in modo interessante, facendo il ritratto dei tre più richiesti sulla piazza, David Bailey, Terence Donovan e Brian Duffy. Il regista allora commissiona al curatore del supplemento e autore del pezzo Francis Wyndham una lunga e dettagliata informativa che deve servire per corroborare una sceneggiatura, scritta con Tonino Guerra, ancora scarna e priva di troppi fondamentali elementi. Al lungo e dettagliato report, ricco di aneddoti intimi anche grazie alle frequentazioni personali di Wyndham, Antonioni fa seguire un questionario da dare ai diretti interessati, dove non viene risparmiato nemmeno il più piccolo dettaglio della vita dei tre.  Il suo è uno schema di lavoro molto rigoroso, che potrebbe sorprendere, visto che si tratta di un regista che ha firmato capolavori come “L’avventura”, “La notte”, “L’eclisse”, che non hanno certo un’impronta documentaristica.

Ma è così che decide di muoversi nel nuovo territorio lontano dall’Italia, e quando da questa abbondanza di informazioni estrapola il nome di un certo Don McCullin, come l’unico fotografo che i tre dichiarano di ammirare nel panorama londinese, sebbene impegnato in un genere che sta agli antipodi del loro, ad Antonioni si accende un lume. Forse è proprio McCullin l’uomo giusto che potrebbe realizzare quelle immagini al centro del suo film, quel mistery ispirato all’esile trama di un racconto breve di Cortazar, dove un fotografo cattura a sua insaputa un evento criminale, ma ne viene a conoscenza solo nella sua camera oscura. Oggi, immersi come siamo nell’era digitale, quella degli ingrandimenti da pellicola può apparire un meccanismo faticoso e complicato, che fa parte più della preistoria, che della realtà di pochi decenni fa. Tutto il senso di “Blow up” si basa su quella lunga sequenza silenziosa dove gli ingrandimenti appaiono uno dietro l’altro, dopo un faticoso lavoro di stampa, a raccontare forse un probabile delitto. La casa di produzione di Carlo Ponti gli ha messo a disposizione il fotografo di scena, ma il regista cerca altro, non un compitino ben fatto, ma immagini forti, dai contrasti decisi.

McCullin è appena arrivato al Sunday Times, dove rimarrà per diciotto lunghi anni, firma di punta di tutti i più grandi reportage del settimanale, ed è grazie a Wyndham che Antonioni può coinvolgerlo nelle scene decisive che si svolgono nel parco, dove il personaggio di Hemmings cattura di nascosto l’incontro tra due amanti con la sua Nikon F. La stessa che usa McCullin, e che lo salverà da morte certa in una risaia cambogiana pochi anni dopo, facendogli da scudo a una pallottola vagante. A McCullin viene detto di seguire il punto di vista di Hemmings e di scattare come fosse nei panni del protagonista, tutta la sequenza della coppia, ma anche di un uomo con pistola nascosto tra gli alberi, e infine un corpo dietro un cespuglio. Senza sapere nulla della trama e delle implicazioni di queste scene, un metodo che Antonioni segue anche con i suoi attori, che rimangono all’oscuro delle motivazioni del suo film, creando non poche frizioni con alcuni di loro. Nelle lunghe giornate di riprese a Maryon Park, spesso interrotte a causa dei cambi di luce che Antonioni vuole perfetta, nel piccolo parco a forma di palcoscenico nell’estrema periferia a sud ovest, a McCullin viene anche chiesto di istruire Hemmings nell’uso della macchina fotografica, a muoversi nel modo giusto, da vero professionista.

Terminate le riprese consegnerà il rullino alla produzione, tutti gli ingrandimenti verranno fatti altrove, in un laboratorio che segue le indicazioni del regista, quello che vuole ottenere con le sgranature, la confusione delle sagome sull’erba e tra i cespugli, il fondamentale supporto visivo dell’enigma che vuole mettere in scena. Una ventina di questi ingrandimenti verranno ritrovati poi per caso nei primi Anni Novanta da un collezionista, Philippe Garner, appassionato del film, e allora direttore della casa d’aste Christie. Un’intera sequenza che è un vero e proprio reperto di archeologia cinematografica! Non è l’unico tocco di McCullin nel film, Antonioni gli chiede anche di poter usare le immagini che anni prima aveva scattato tra gli homeless dell’East End, allora il quartiere più povero di Londra, un’umanità dolente di poveri e senzatetto che gli ha dato la fama di fotografo sociale. Queste foto scorrono in una scena del film, quando il protagonista con il suo editore sfogliano una stampa prova dell’opera da pubblicare, un libro in cui inserire alcune immagini scattate tra gli homeless di un hospice dove il fotografo ha appena trascorso la notte, ovviamente nascondendo la sua identità. Antonioni sceglie infatti di aprire “Blow up” con un Hemmings vestito da barbone che esce dall’ostello al mattino con la sua macchina fotografica ben nascosta, insieme ad un gruppo di ospiti, per poi dirigersi verso la sua decappottabile parcheggiata nelle vicinanze.

Costruisce così con l’aiuto di McCullin un personaggio doppio, un fotografo che esprime esattamente le due direzioni della fotografia di allora, il reportage sociale e di guerra, e la moda con tutto il suo armamentario stilistico. Sulla prima Antonioni continuerà a insistere con il suo “Professione reporter”, del 1975, dove Jack Nicholson è un giornalista tv che sta girando in Nord Africa un reportage sulla guerriglia locale, e decide di cambiare identità per allontanarsi dalla sua vita e ricominciarne una nuova. Ed è davvero sorprendente cogliere nel dialogo tra il personaggio di Hemmings e il suo editore una frase premonitrice, quando il fotografo afferma di voler concludere il suo libro così carico di miseria e dolore, con le immagini di un parco, perché «c’è una calma e una pace… ». Come nei bellissimi e struggenti paesaggi colti da McCullin nel suo Somerset, alla fine di un percorso di vita che lo ha portato ovunque tra gli orrori del mondo.

 
Pubblicato : 11 Ottobre 2023 05:00