La riforma costituzionale è un ibrido anglo-tedesco incompatibile con la politica italiana
È un facile profeta Peppino Calderisi quando scrive che ci si deve aspettare «uno scontro insensato tra innovatori-sgangherati-apprendisti stregoni e conservatori-difensori della Costituzione più bella del mondo». Il modello proposto dal governo Meloni, per quel che se ne sa, sembra un maldestro pasticcio di britannico e tedesco, in salsa italiana. È nella tradizione di Westminster che, se un premier perde la fiducia, venga sostituito da un esponente della stessa maggioranza: basti pensare ai casi della Margaret Thatcher e di Boris Johnson. È tedesca la sfiducia costruttiva, nella sua versione larga, che richiede una maggioranza anche diversa dalla precedente per poter sfiduciare il Cancelliere.
Le due cose stanno male insieme, e non basta certamente la scappatoia dello stesso programma; i programmi non sono vincolanti per nessuno, come si vede e non solo oggi. La storia sorprende tutti e fa saltare i programmi. La salsa italiana è data dall’elezione diretta del premier: cosa che non esiste in alcun paese democratico, e che si configura come una forzatura inutile e foriera di problemi più che di soluzioni.
Cerchiamo allora di capire qual è l’ispirazione di fondo che guida la proposta. Rafforzare il presidente del Consiglio: e questa è un’esigenza sacrosanta, che non va affatto confusa col mitico uomo solo al comando, che va bene al massimo per Matteo Salvini. Si tratta di quella che i costituzionalisti progressisti (sì, anche loro si dividono in progressisti e conservatori) chiamano razionalizzazione del sistema parlamentare, cioè un diverso equilibrio dei poteri, che eviti al premier la sua posizione di debolezza, senza però recidere le sue radici nel parlamento che risulta dalle elezioni. Per questo non c’è affatto bisogno dell’elezione diretta, che ingessa il rapporto creando le condizioni per reciproci ricatti.
Risulta più opportuna piuttosto la fiducia a camere riunite (proposta Ceccanti) e la possibilità di proporre non solo la nomina ma anche la revoca dei ministri, la cui inamovibilità nell’attuale sistema è ingiustificabile e spesso fonte di imbarazzi vari. Ma l’esigenza della Meloni sembra essere quella di evitare i ribaltoni, cioè i cambiamenti della maggioranza governativa. Un fenomeno che ha raggiunto in questi ultimi anni, grazie alla straordinaria e immaginifica flessibilità di Giuseppe Conte, livelli mai visti anche rispetto alla tradizione del trasformismo italico.
Un’esigenza che sembra più che giusta, ma non ha bisogno di ingessare il sistema. È sufficiente che il premier risulti dal voto degli elettori, come nei sistemi parlamentari europei Questo punto rimanda alla legge elettorale, per la quale Calderisi propone il doppio turno di collegio: soluzione che potrebbe finalmente rimettere su una base solida, anche se modernizzata, il nostro sistema politico, ma che proprio per questo non verrà sostenuta da nessuno.
L’ipotesi più probabile è quella di varie liste proporzionali collegate al premier, eletto o indicato: una soluzione che difficilmente ci farebbe fare passi avanti rispetto alla situazione attuale: nella quale, è bene ricordarlo, la presidente del Consiglio è forte (relativamente) perché gli altri partiti temono di essere fagocitati, ma dopo le europee le cose potrebbero cambiare.
C’è infine la questione dei poteri del presidente della Repubblica. Questione delicata. Abbiamo avuto negli ultimi decenni dei presidenti di straordinaria capacità, che hanno svolto una funzione di supplenza rispetto a un sistema politico infragilito e incapace di trovare soluzioni alle sue crisi. Bisogna chiedersi, però, se è il caso di considerare fisiologica questa funzione di supplenza – peraltro non prevista in questa forma dalla Carta – o se invece essa non sia un segno della stessa debolezza, come peraltro fu denunciato con forza da Napolitano al momento della sua rielezione. In altre parole: vogliamo puntare sulla stabilizzazione della supplenza presidenziale o sul rafforzamento del sistema politico?
Questo sembra essere il dilemma di fronte a noi. Ci sono dubbi sul fatto che la maggioranza sia in grado di affrontarlo; ma è certo che il Partito Democratico non lo è. Questo partito ha sepolto la memoria dell’impegno per le riforme istituzionali, che, anche se da posizioni diverse, fu proprio dei socialisti e di Achille Occhetto, e proseguito per anni fino alla bicamerale D’Alema e poi a Matteo Renzi, e sembra accomodarsi nella posizione conservatrice. Una posizione perdente, va da sé, che sarà costretta a puntare sul riflesso condizionato del no a tutti i referendum. Ma attenzione: questa volta potrebbe andare diversamente. Attenzione al carisma della Meloni.
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