La Germania ha espulso il razzismo dagli stadi, ma se lo ritrova sui social
C’è un Paese in Europa in cui il fenomeno dei cori razzisti negli stadi è praticamente assente: la Germania. Se il problema continua a essere di strettissima attualità in Italia, così come in Francia, in Spagna e in Inghilterra – sebbene con differenze nel tipo di episodi e, soprattutto, nella reazione delle istituzioni sportive –, la Germania pare essere un’isola felice. Frutto in particolare di una scena ultras molto solida e che da almeno trent’anni si è costruita attorno a ideali inclusivi, antifascisti e antirazzisti, che hanno permesso in molti casi di estromettere dagli impianti certi comportamenti.
Non che non esistano tifoserie connotate politicamente verso l’estrema destra, ma restano estremamente minoritarie nel Paese e per lo più concentrate nei territori dell’ex-Germania Est. Pochissime delle loro squadre però militano nelle uniche due divisioni professionistiche (al momento sono in tutto quattro, due per categoria), per cui nella maggior parte dei casi restano fuori dai radar, confinate nelle serie dilettantistiche. Questa struttura ha fatto sì che i campi della Bundesliga siano diventati sicuri e accoglienti per i calciatori afrodiscendenti, ma negli ultimi tempi qualcosa sta cambiando.
Dallo stadio ai social
Lo scorso 14 febbraio, il Bayern Monaco è stato sconfitto a Roma in Champions League dalla Lazio, e parte della responsabilità è ricaduta sul difensore francese Dayot Upamecano, che ha commesso un fallo da espulsione in area, causando un rigore per gli avversari. Subito dopo, il profilo Instagram del giocatore è stato invaso da insulti razzisti da parte dei suoi stessi tifosi. Un caso abbastanza particolare, se pensiamo che la tifoseria bavarese è una di quelle più nettamente connotate a sinistra, grazie a un gruppo come il Schickeria.
Il club ha immediatamente condannato con parole ferme l’accaduto, ma queste prese di posizione, per quanto necessarie, iniziano a sembrare sempre meno efficaci. Al Bayern simili episodi non sono purtroppo nuovi: lo scorso aprile, la stessa cosa era già successa sempre nei confronti di Upamecano, quando ancora un suo errore era costato l’eliminazione dalla Champions League contro il Manchester City. Ad agosto, insulti razzisti online erano stati rivolti al diciottenne attaccante francese Mathys Tel, dopo la sconfitta dei bavaresi nella Supercoppa di Germania.
Da circa un anno a questa parte, almeno, il problema del razzismo nel calcio tedesco sta affiorando in maniera piuttosto evidente. Nella scorsa stagione, anche Benjamin Henrichs, giocatore tedesco di origini ghanesi in forza al RB Lipsia, aveva ricevuto insulti discriminatori sui social media, ed era stato lui stesso a renderli pubblici. Di nuovo, a giugno la stessa cosa era toccata a due giocatori della nazionale U21 tedesca, Youssoufa Moukoko e Jessic Ngankam. In quest’ultima occasione, la Federcalcio aveva reagito con un comunicato molto duro rivolto ai responsabili: «Ci disgustate. Voi non siete veri tifosi, e noi non vi vogliamo né abbiamo bisogno di voi».
Il razzismo e la crisi
Capire a cosa sia dovuto questo rigurgito razzista nel calcio tedesco non è semplice, ma è abbastanza facile notare uno schema ricorrente che collega tutti questi episodi: i tifosi che hanno scritto i messaggi razzisti online erano tutti sostenitori della squadra che aveva appena perso la partita. Il caso del Bayern Monaco è forse il più emblematico, perché si tratta della società più ricca e vincente di Germania, ma nelle ultime due stagioni è sempre uscita ai quarti di Champions League e quest’anno, dopo aver malamente perso la Supercoppa nazionale in avvio di stagione, rischia di chiudere la prima annata dal 2012 senza vincere la Bundesliga.
Non è una novità che gli atteggiamenti discriminatori emergano proprio in concomitanza con i momenti di crisi, sia essa sportiva o sociale. Commentando gli abusi subiti lo scorso giugno, Moukoko aveva detto: «Se vinciamo, siamo tutti tedeschi; se perdiamo, siamo quelli neri, e subito arrivano commenti che ci chiamano scimmie». Parole che riecheggiano quelle dette anni fa dall’attaccante belga Romelu Lukaku, anche lui di frequente vittima di discriminazioni razziste da parte dei tifosi.
Se si esce dalle serie professionistiche e si scende nei campionati minori, specialmente nelle già citate zone della ex-Germania Est, il problema del razzismo, rimosso dai grandi stadi, si ritrova con maggiore frequenza. Ce ne si è accorti, per esempio, lo scorso agosto, quando i professionisti del Greuther Fürth sono andati in visita ad Halle in Coppa di Germania per affrontare la squadra locale, che milita in terza serie: l’attaccante afroamericano Julian Green ha ricevuto insulti razzisti dagli spalti occupati dai tifosi di casa.
Anche in questo caso il calcio non può che essere un triste specchio di una situazione politica più generale. La crisi, economica e sociale, di questi anni ha segnato l’ascesa del partito di ultradestra AfD, noto per le esternazioni razziste dei suoi membri e le sue politiche anti-migranti. Alle elezioni federali del 2013 aveva l’1,86 per cento dei voti, mentre alle ultime, nel settembre 2021, ha superato il dieci per cento, e ha le sue roccaforti soprattutto nell’ex-Germania Est, anche se sta iniziando a espandersi nel resto del Paese. Lo scorso gennaio, oltre novecentomila persone hanno preso parte a manifestazioni in tutta la Germania contro AfD, e se da un lato questo testimonia come esista ancora una forte resistenza all’estrema destra, dall’altro mette anche in chiaro come oggi l’esistenza del problema sia riconosciuta da tutti.
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