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Il successo della Cortellesi e le donne che ambiscono solo all’abito da sposa

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(@guia-soncini)
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Ma gli intellettuali, i critici, i fenomenologi di costume, coloro che ora cercano di spiegarsi il successo del film di Paola Cortellesi come fossero studenti ciucci davanti alla congettura di Poincaré, costoro annoverano non dico un paio di cugine in provincia, ma anche solo un telefono collegato all’internet?

E, se ce l’hanno, pensano forse di capire lo spirito del tempo, la società alla quale dovrebbero parlare, la popolazione che inspiegabilmente ha smesso di comprare i loro giornali, pensano di completare la loro formazione al presente guardando le storie Instagram della Ferragni?

Dovrebbe esserci, obbligatoria per l’esercizio delle professioni intellettuali, l’iscrizione ad almeno un paio di gruppi di mamme su Facebook. Non per capire la maternità: per capire quella grandissima parte di donne per cui l’identificazione precipua è nella maternità.

Per sapere che esistono le donne che noialtri, sui nostri divani costosi e godendoci una vita indipendente che le donne vere guardano con compatimento, non incontriamo mai. Quelle che vanno dall’usuraio per pagare il matrimonio della figlia. Quelle che il matrimonio loro è la cosa più importante della loro vita, la cosa che prendono un anno d’aspettativa per organizzare, la giornata per rievocare la quale pagano un fotografo che costa come tre rate di mutuo.

Quelle che si affacciano nel gruppo e pongono il loro grave problema, e il problema è che a loro piace un vestito con cui non sta bene il velo, e il marito a questa notizia ci è rimasto molto male perché a lui piaceva molto l’idea del gesto con cui, all’altare, alzava il velo dal viso (a costoro sembra più elegante dire «viso» di «faccia») alla sposa. Donne che hanno il diritto di voto da settantasette anni e li hanno usati per recedere dall’emancipazione abbastanza da sposare uomini che ci tengono al simbolismo della donna velata.

Donne così, vuoi che non si specchino nel film in cui Paola Cortellesi è sposata con un violento, Valerio Mastandrea, e allora gli nasconde una parte dei soldi che guadagna facendo mille lavoretti, e tu pensi li stia accumulando in quel cassetto per andarsene da quel matrimonio di merda, da quel seminterrato sui davanzali del quale pisciano i cani, da quei figli del 1946 maleducati come bambini del 2023, mannò: lei con quei soldi vuole comprare l’abito da sposa alla figlia maggiore, «Dev’essere la più bella di tutte».

Perché Paola Cortellesi ha sposato Valerio Mastandrea? Aveva una storia col mite Vinicio Marchioni, lui le dice qualcosa tipo «mi sono distratto un attimo e te n’eri andata con lui», e tu tutto il film aspetti che ti spieghino come mai, ma niente.

Come fa Paola Cortellesi a dire a un soldato americano, un soldato che ha cercato varie volte di parlarle ma lei non parla una parola d’inglese e lui non una d’italiano, tant’è che crede lei si chiami «Devoanna’», perché lei neanche quando lui le ha chiesto come si chiamasse ha capito la domanda, come fa Paola Cortellesi a spiegargli in dettaglio e in maniera convincente che deve far saltare in aria un certo posto per risolverle un certo problema? Non si sa, non te lo spiega nessuno.

D’altra parte non è un film, questo è ovvio: i sette milioni che ha incassato nei primi dieci giorni non ci dicono che la gente rivuole il cinema in sala (figuriamoci). Ci dicono – come già ce l’aveva detto il successo di Fiorello all’alba – che la gente rivuole il varietà del sabato sera, lo rivuole abbastanza da andarlo a vedere al cinema, lo rivuole abbastanza da guardarlo alle sette di mattina.

Le parti migliori – le botte coreografate, i denti sporchi di cioccolata, il rossetto tolto prima di chiudere la scheda elettorale – le parti migliori sembrano uscite non da “L’onorevole Angelina” e altri film più o meno a caso che vengono citati solo perché in bianco e nero e contenenti donne risolute: sembrano sketch di quel recente passato in cui Bibi Ballandi faceva i varietà del sabato sera, e la tv era una cosa seria, costosa, piena di idee, e da non guardare solo perché eri una disperata che nessuno invitava a uscire. Una figata da stare a casa apposta per guardarla.

Peraltro, segnalo sommessamente ai citatori di film a caso del secolo scorso, il bianchennero della Cortellesi non è un bianchennero da Luigi Zampa: è un bianchennero da Dolce e Gabbana. In tutte le scene in cui cammina, fa la spesa, supera le jeep dei militari, attraversa il cortile, la Cortellesi è la modella d’uno spot su com’eravamo belli quando la vita era più semplice, e le donne avevano gonne a metà polpaccio e sandali piatti che se non sei strafiga come la Cortellesi ti fanno sembrare due zamponi in attesa di lenticchie.

La sua borsa della spesa è identica alle borse di rafia che ha fatto quest’anno Miuccia Prada. Non è certo una critica – l’estetica del dopoguerra è stata saccheggiata così tanto che è impossibile non fare citazioni ambigue – né credo che siano forme casuali. Proprio come le musiche moderne sulle immagini fintamente antiche – i danni che ha fatto Baz Luhrmann ci vuole la protezione civile per conteggiarli – anche il sembrare uno spot patinato mentre racconti una storia povera e triste è una scelta estetica ben precisa.

In “C’è ancora domani” – il cui punto più debole non si può raccontare senza svelare cosa sia davvero quel McGuffin che appare a un certo punto e sembra chissacché e poi quando capisci cos’è ti senti, a seconda che tu sia ceto intellettuale o ceto Carlotta, presa per il culo o commossa – c’è una sola donna forte.

È l’amica fruttivendola della Cortellesi, Emanuela Fanelli, che viene redenta da questo suo difetto con uno sguardo struggente che, mentre mangia un gelato col marito, rivolge a una donna incinta che le passa davanti. Sì, sarà pure una che capisce il mondo, che comanda a bacchetta il marito, che ha la risposta pronta e le idee chiare, ma non è stata, direbbero nei gruppi di mamme, benedetta dall’arrivo di un angioletto o di una principessa (delle scelte lessicali differenti rispetto alla prole maschile o femminile parliamo un’altra volta, quando finiamo di meravigliarci del successo della Cortellesi).

Come avete già letto in un milione di articoli – e io pure, avendo avuto il vantaggio di vedere il film in ritardo – “C’è ancora domani” è ambientato nei giorni del 1946 in cui le donne italiane possono per la prima volta votare. E finisce col messaggio (diceva Nanni Moretti molti anni fa: col tema importante si vince sempre, ricattando il pubblico). Finisce con le immagini dell’Istituto Luce delle vere elettrici in fila ai seggi, e la scritta che ci dice che la maggioranza di coloro che votarono erano donne.

Il messaggio è l’emancipazione? Il messaggio è che «partecipazione, certo, è libertà, ma è pure resistenza»? È la canzone di Daniele Silvestri che la Cortellesi usa alla fine, quindi possiamo essere ragionevolmente certe che il messaggio sia quello.

Però la società che settantasette anni dopo va a vedere il film della Cortellesi ritiene, qualora cittadina nata femmina e con diritto di voto e di carriera e altri mille diritti di cui non intende fare uso, che la cosa più importante sia non essere la zitella al pranzo di Natale, e che l’abito da sposa sia l’invidia di tutte le amiche e parenti.

E quindi, una volta che sono uscite dal cinema sentendosi migliori perché hanno letto che nel ’46 votarono in tante, e la dedica «a Lauretta», che immagino essere la figlia della Cortellesi, chiarisce del tutto che il messaggio è che dovete partecipare alla democrazia, ragazze, e solo così vi libererete anche dei mariti violenti, ecco, una volta fatta ’sta lacrimuccia, poi siamo sicurissime che non tornino a casa a dire al marito ma certo che prendo il vestito col velo, ti pare che ti deludo – siamo sicure?

Chissà se basteranno centodiciotto minuti di Paola Cortellesi a riformare una popolazione femminile del 2023 assai meno emancipata di quanto lo fosse quella di prima del 1946. Io temo che, una volta passate quelle due ore, torneremo a casa e penseremo che domani ci licenziamo, se lo facciamo prima che l’angioletto o la principessa compiano un anno prendiamo la Naspi.

La frase più detta nei gruppi Facebook di mamme è «Siamo donne, siamo mamme, possiamo tutto». Tutto, tranne avere il piglio delle donne di ottant’anni fa, quelle che non essendosi trovate la pappa pronta ogni tanto ambivano a un po’ più dell’abito da sposa invidiabile. Ogni tanto.

 
Pubblicato : 7 Novembre 2023 05:45
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