Il patto di Calenda, l’oblio della politica e la ricostruzione della sfera pubblica
L’ha scritto qualche giorno fa Francesco Cundari: Carlo Calenda sembra incredibilmente il solo leader politico consapevole che le operazioni di ortopedia istituzionale, con cui per oltre trent’anni si è tentato di conformare l’Italia a una presunta normalità bipolare, anziché rendere il sistema dei partiti più efficiente l’hanno complessivamente (direi: totalitariamente) alienato dalla responsabilità di governo, con risultati economici e civili che sono sotto gli occhi di tutti, ma che, per l’appunto, non abbiamo neppure più gli occhi per vedere, accecati come siamo da un “o di qua o di là” di degradatissima eticità: da tifoserie calcistiche o da tribù.
C’è però un’ulteriore ragione (presupposta a quella che Cundari individua) a rinchiudere il gioco dei partiti nella gabbia dell’incomprensione e dell’impotenza, della reciproca ostilità e della recriminazione e anche a questa Calenda accenna nel suo libro (Il Patto, Oltre il trentennio perduto, La nave di Teseo) quando, con una censura apparentemente moralisticica, denuncia come alla maggioranza degli italiani non importi «assolutamente nulla di quel che succede fuori dalla propria sfera personale» e aggiunge: «Per questo il conflitto politico si sposta verso questo ambito».
Più che una filippica sull’anomia morale degli italiani questa è una diagnosi esatta su un fenomeno, quello delle guerre identitarie, che segna ovunque la crisi dei sistemi democratici – in Italia in modo ancora più diffuso e intenso – e ha a che fare con la vera e propria trasmutazione del concetto del “politico” e con la sua subalternità al “mediatico” nella determinazione della realtà della sfera pubblica.
Non si tratta affatto di rimpiangere o ripristinare retoriche comunitarie o collettivistiche (che sono tuttora alla base del reazionarismo di destra e di sinistra), piuttosto di ricordare che la politica democratica non è semplicemente un meccanismo di legittimazione e limitazione dell’esercizio del potere legale, ma di organizzazione di un pensiero, di un discorso e di una vita pubblica. La politica trasforma la piazza in agorà, il suddito in cittadino e lo stesso esercizio del potere sovrano in una forma di libertà e di vita comune.
La sfera politica, per dirla con Hannah Arendt, non è l’estensione della sfera domestica o il luogo in cui questa trova riconoscimento e protezione, ma una modalità del tutto particolare di relazione tra gli uomini. Detto in modo molto sommario, la politica precede e fonda la polis. La politica inizia con l’uscita dalla casa. Senza politica, una comunità non diventa una città e uno stato non diventa una repubblica.
È abbastanza evidente che la crisi della democrazia, e con essa l’oblio della responsabilità e capacità di governo della politica, coincide con l’avvento di un sistema di comunicazione di massa che anziché trasformare il personale in politico rende più facile e redditizia la trasformazione del privato in pubblico e quindi l’universalizzazione della dimensione domestica come ubi consistam dell’identità politica.
La sempre più agevole “pubblicizzazione del sé”, dei propri desideri, delle proprie pretese e delle proprie paure, non necessità di alcuna vera relazione umana, né di alcuna concretezza politica, che implica al contrario la ricerca, come minimo, di una comune etica del discorso. Il “sé” della comunicazione globale è anche per questa ragione più vulnerabile e manipolabile. Il cittadino digitale è rinchiuso nella propria sfera privata (individuale, familiare, nazionale) non perché è egoista, ma perché è alienato, cioè, escluso dalla dimensione politica dell’esperienza umana, che non è rappresentazione di sé, ma azione con gli altri.
Nella democrazia imprigionata nella sala degli specchi delle identità tutto può rovesciarsi nel suo contrario. Infatti in Italia il bipopulismo è un regime politico che risolve impressionanti somiglianze in trasformistiche differenze – ad esempio tra il Conte I e il Conte II, inteso nel senso del governo e anche del personaggio – e raggruppa le squadre prescindendo dalla gran parte delle vecchie discriminanti ideologiche e previlegiando appartenenze antropologico-tribali che possono essere profonde, come quelle etniche, religiose e nazionali, ma anche contingenti, evanescenti o addirittura inventate, come le identità combinatorie del pensiero intersezionalista e le altre idolatrie della stan culture politica collettiva: si pensi in Italia al grillismo o negli Usa al trumpismo.
Da questo punto di vista la differenza tra destra e sinistra trascolora non perché storicamente abbia smesso di avere un significato, ma perché ha cessato di avere una vera rilevanza nel momento in cui la politica ha smesso di essere discorso e governo, per diventare auto-rappresentazione e contesa di identità tanto più tribalizzate, quanto più irrelate e tanto più dirompenti quanto più anonime, proprio perché a un tempo massificate e polverizzate dall’incapacità o dal rifiuto del dialogo.
Sempre guardando al fenomeno più originale e caratteristico della Seconda Repubblica italiana, cioè il M5S, la sua completa reversibilità ideologica – da Trump a Melenchon, ma mai troppo lontano da Putin – e il suo radicale trasformismo pratico – non poteva per statuto allearsi con nessun altro partito, ma si è alleato con tutti – è stata resa possibile (cioè ammissibile) dal fatto che le basi socio-culturali dell’elettorato italiano non sono più costituite da pensieri trasversali e unificanti, tenuti insieme da vincoli di coerenza (come in fondo erano nella Prima Repubblica sia l’ideologia di classe, sia l’interclassismo laico e cattolico), bensì da esperienze irriducibilmente soggettive e divisive, politicizzabili solo nella forma nichilista dell’angoscia, del pregiudizio o del disprezzo, perfettamente aderenti al paradigma tribale della comunicazione polarizzata e dell’estremizzazione di posizioni opposte, ma perfettamente fungibili.
Infatti la destra sovranista può sposare il cospirazionismo antimercatista, imputando alla sinistra di essere il partito delle banche e della finanza, e la sinistra può rimproverare la destra di svendere l’interesse nazionale, subordinandolo ai burattinai dell’internazionale globalista. La destra può parlare comunista e la sinistra fascista – e va benissimo così.
Anche i caratteri ideologici del mainstream prevalente sia a destra che a sinistra – quello nazionalista, anti-società aperta, anti-globalizzazione – deriva dall’idea che la sfera pubblica sia semplicemente l’ampiamento della sfera privata e la polis sia un enorme condominio di condomìni, non una dimensione del tutto diversa, cioè il prodotto di un’azione politica che implica in sé il superamento delle coordinate spazio-temporali della vita individuale.
Sulla base di questa distorsione cognitiva la maggioranza degli italiani probabilmente plaudirebbe al disimpegno perfino simbolico dalla guerra all’Ucraina (quello pratico è già stato operato con il blocco di fatto degli aiuti finanziari e militari) e al “ritorno a casa” dell’Italia, malgrado sia di una evidenza perfino clamorosa che il fronte della guerra in Donbas e in Crimea, come a Taiwan, è la vera frontiera e la vera sfida esistenziale dell’Occidente democratico e la vittoria dei suoi nemici segnerebbe la rovina non solo morale, ma anche materiale degli occidentali e per primi degli europei. La politica “chiusa in casa” non è cinica e cattiva, è cieca e suicidaria.
Il “Patto” che dà il titolo al libro del leader di Azione, molto più che la formula per una aggregazione terzopolista, esprime una necessità, che dovrebbe essere presa sul serio ben oltre i confini dell’ex o neo Terzo Polo.
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