Il calcio europeo ha ancora un grosso problema di omofobia
L’omofobia resta ancora oggi un evidente tabù nel mondo del calcio e purtroppo negli ultimi mesi i segnali su questo fronte sono stati tutt’altro che rassicuranti. L’ultimo arriva dalla Premier League, dove si svolge in questi giorni la campagna Rainbow Laces, promossa dal 2013 dall’organizzazione Stonewall. Mercoledì 6 dicembre, il difensore bosniaco dello Sheffield United Anel Ahmedhodžić è infatti diventato il primo capitano di una squadra inglese in sette anni a scendere in campo senza indossare la consueta fascia arcobaleno durante questa campagna.
Il suo caso segue quello altrettanto discusso avvenuto lo scorso maggio nel campionato francese, quando cinque giocatori di tre diversi club si rifiutarono di giocare pur di non dover reggere un cartello recante un messaggio a supporto della comunità Lgbtq+. In estate, un altro brutto colpo alla battaglia contro l’omofobia nel mondo del pallone era stata la sorprendente decisione del centrocampista del Liverpool e dell’Inghilterra Jordan Henderson, noto alleato della comunità Lgbtq+, di trasferirsi a giocare in Arabia Saudita, nonostante le note violazioni dei diritti delle persone gay e transessuali nel paese arabo.
L’imbarazzo inglese
Il caso di Ahmedhodžić potrebbe per certi versi essere definito fortuito. Solo perché il ventiquattrenne dello Sheffield non avrebbe proprio dovuto indossare la fascia di capitano, se non fosse stato per le assenze dei due compagni designati a farlo, John Egan e Chris Basham. Ma questa circostanza ha finito per far emergere una situazione che ha del paradossale, visto che poche ore prima della partita il club aveva comunicato sui propri canali social il proprio supporto all’annuale campagna Rainbow Laces. Oltre a questo, lo Sheffield United ha anche un proprio gruppo di tifosi e tifose Lgbtq+ molto nutrito, i Rainbow Blades, che ovviamente non ha potuto nascondere il suo disappunto per la decisione del capitano.
Interrogato sulle sue motivazioni dalla testata svedese SVT Sport, Ahmedhodžić ha risposto solo «Indovina». E sui social in tanti hanno fatto notare come il nazionale della Bosnia sia notoriamente un fedele musulmano, come del resto i cinque giocatori coinvolti nel caso dello scorso maggio in Francia. Ma la religione conta fino a un certo punto, tant’è che altri giocatori musulmani non hanno mai avuto problemi a partecipare a campagne per i diritti Lgbtq+ in giro per l’Europa. E i tifosi identificati per comportamenti omofobi negli stadi, specialmente nel Regno Unito, spesso non hanno alcuna chiara motivazione religiosa.
Il calcio inglese è probabilmente il più attivo oggi a livello mondiale nella lotta alle discriminazioni omofobe. La maggior parte dei club hanno promosso negli anni la nascita di gruppi Lgbtq+ nelle proprie tifoserie, e sono spesso in prima linea nella denuncia di episodi omofobi negli stadi. Lo dimostra per esempio il caso, avvenuto a fine novembre, che ha visto l’identificazione di due tifosi del Nottingham Forest accusati di insulti discriminatori nel corso della partita contro il Brighton. Sempre più società e autorità inglesi riescono a individuare i responsabili e a punirli: ecco perché il caso di Ahmedhodžić, riguardando un calciatore anche abbastanza noto, non può non sollevare un certo imbarazzo.
Il problema dei giocatori
Una cosa è certa, però: al di là delle giuste e sempre più frequenti campagne di sensibilizzazione, il calcio non pare ancora avere un preciso protocollo per rispondere ai casi di discriminazione che coinvolgono in prima persona dei giocatori. Il difensore dello Sheffield difficilmente riceverà sanzioni, sia da parte del suo club che da parte della Premier League, ed è probabile che l’unica conseguenza per il suo comportamento sarà che non gli verrà più affidata la fascia da capitano. Ma anche in Germania, la scorsa estate, c’è stata una situazione simile, quando il Borussia Dortmund – un club fortemente schierato contro le discriminazioni, anche grazie alla sua attivissima tifoseria – ha ingaggiato Felix Nmecha, che in passato fece discutere per aver condiviso sui social post omofobici e transfobici.
I tifosi del Dortmund avevano chiesto al club di non acquistare il centrocampista, rivendicando i valori che la società ha sempre sbandierato, ma evidentemente questo non è stato sufficiente. L’amministratore delegato Hans-Joachim Watzke aveva snobbato la questione dichiarando che Nmecha è solo “un normale ragazzo”, e il club si è dunque limitato a ignorare il problema (e a far firmare al giocatore un contratto che prevede una multa salatissima in caso di altri commenti discriminatori). Insomma, una cosa è far rispettare i propri valori quando a infrangerli sono i tifosi, e un’altra è quando invece sono i tuoi stessi tesserati.
La Serie A, per il momento, resta a sorpresa un’isola felice. Spesso al centro di critiche per le ambigue gestioni del problema del razzismo o per l’ipocrisia delle campagna contro la violenza sulle donne, il campionato italiano per ora non ha ancora affrontato alcun caso esplicitamente omofobo. L’arrivo di Jakub Jankto, uno dei pochi professionisti dichiaratamente gay, al Cagliari finora non ha dato adito a episodi di discriminazione (a parte alcune discutibili parole del ministro dello Sport Andrea Abodi). Ma va tenuto presente che la lotta all’omofobia nel calcio italiano è ancora molti passi indietro rispetto a quanto avviene negli altri principali campionati europei: le iniziative su questo fronte sono recentissime, e sono ancora rari i club che, per esempio, utilizzano loghi arcobaleno durante il Pride Month. In poche parole, nulla ha ancora messo veramente alla prova la Serie A su questo fronte.
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