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Due documentari e una guerra culturale tra Svezia e Norvegia

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(@enrico-varrecchione)
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Nella parte di mondo anglofona, la discussione che circonda una parte dei diritti civili, molto frequentemente quella collegata alla tolleranza nei confronti dell’omosessualità e, in maniera ancora più veemente, all’identità di genere, viene definita una guerra di cultura, una «culture war».

Su questo presupposto è partito il lavoro della tv di stato svedese Svt, che ha portato alla pubblicazione, lo scorso 10 settembre, del documentario “Transkriget, tänk om ni har fel” (traduzione: «La guerra trans: immagina se dovessi avere torto»). Storicamente, il servizio pubblico svedese è stato spesso accusato dai canali di estrema destra di portare avanti un messaggio eccessivamente improntato al politicamente corretto, ma questa miniserie a episodi (tre della durata di circa venti minuti ciascuno) ha causato malumori dalla parte opposta dello spettro politico.

L’intenzione era quella di generare un dibattito su un argomento attorno al quale si cammina letteralmente sui gusci d’uovo e, almeno per qualche giorno, l’obiettivo è stato raggiunto: reazioni immediate da parte degli osservatori e delle associazioni (in particolare quelle per la difesa delle minoranze sessuali e di genere), editoriali e addirittura segnalazioni all’osservatorio sulle discriminazioni, come è avvenuto nel caso della Lega Nazionale per l’Educazione Sessuale.

Le polemiche, come vedremo, sono arrivate anche oltreconfine. Subito dopo la pubblicazione, tuttavia, in Svezia si sono verificati episodi di violenza legati alla lotta interna alla criminalità organizzata e l’attenzione dei media si è immediatamente spostata sui gravi fatti degli ultimi giorni.

Transkriget era stato anticipato, in Norvegia, da una puntata dell’approfondimento di attualità Folkeopplysning, andato in onda lo scorso anno. Qui, con toni meno accesi e con la partecipazione di tutte le parti in causa, si è affrontato il tema della rapida ascesa dei numeri di giovani che fanno ricorso ai trattamenti presso le cliniche specializzate in disforia di genere.

Sull’onda del dibattito di questi giorni, una delle protagoniste della puntata di Folkeopplysning, la svedese Emelie Köhler, avrebbe dovuto partecipare ad un panel presso la Casa della Cultura di Oslo assieme ad Aleksander Linkowski. Il dibattito è saltato dopo le proteste per il mancato invito di una figura opposta ai due. Emelie e Aleksander, infatti, sono persone che hanno affrontato il percorso di transizione per poi cambiare idea nel mentre, con danni permanenti.

Aleksander Linkowski, in questo articolo del quotidiano Verdens Gang, racconta come sia arrivato all’operazione che ha rimosso i suoi organi genitali maschili e di come sia stato consigliato da quella che era ritenuta l’autorità norvegese in materia, Esben Esther Pirelli Benestad.

Pirelli Benestad, che compariva nella puntata di Folkeopplysning, è un medico che si definisce non binario, biologicamente uomo: utilizza sia nomi maschili che femminili e si mostra in pubblico in abiti femminili. La sua licenza medica è stata revocata nel febbraio 2023 (e solo parzialmente riabilitata) dopo che erano emersi dettagli sulla sua pratica, dove non avrebbe segnalato alcuni casi alla direzione dell’Ospedale nazionale, evitando di mantenere un adeguata documentazione sui casi seguiti.

Nel primo episodio di Transkriget, erano assenti la Rfsl (l’equivalente svedese di Arcigay) e l’associazione Transammans, che hanno rifiutato di partecipare. Durante gli ultimi anni, la Rfsl ha proposto l’introduzione di un genere anagrafico neutro e certificato oltre seicento figure professionali presso scuole e istituzioni (ad esempio l’equivalente svedese del 118) con il bollino «Lgbtq», spesso consigliandole da un punto di vista grammaticale o lessicale.

Come nello sport, chi non si presenta finisce per perdere a tavolino e, come in una guerra, le parole di chi era presente sono fischiate come proiettili. «Nessun quattordicenne può sapere come andrà a finire». Lo dice Aleksa Lundberg, attrice e giornalista che ha effettuato la propria transizione nei primi anni 2000 e che, per le sue critiche ad Rfsl, sarebbe stata allontanata dalla stessa associazione di cui un tempo era attivista.

A far suonare il campanello d’allarme sono stati in particolare i numeri pubblicati dall’Agenzia nazionale per i servizi sociali, Socialstyrelsen: dal 2012 al 2022 si è passati da avere cinquantacinque minori ammessi ai trattamenti per la disforia di genere agli attuali quattrocentotrentanove.

A un terzo di questi, seicentoventicinque minori con età compresa fra i dieci e i diciassette anni, sono stati somministrati farmaci che bloccano la pubertà, anche dopo la direttiva dell’agenzia sanitaria nazionale, Sbu, che ha consigliato di utilizzarli solo in particolari circostanze e con come regola.

Alla domanda avrebbe dovuto rispondere la dottoressa Louise Frisén, direttrice sanitaria della principale clinica di Stoccolma per il trattamento della disforia di genere, Bup Kids, ma ha rifiutato il confronto. Qui entra in gioco una dottoressa di un istituto simile: non è dato sapere quale, perché preferisce non farsi riprendere in volto dalle telecamere e svelare la propria identità. «Il caso tipico di chi si rivolge a noi è una ragazza biologica con diagnosi di autismo, spesso con un ciclo mestruale precoce e che per questo non si sente a proprio agio non il proprio corpo. Il panico che si prova in queste circostanze è tipico dello spettro autistico».

E cosa succede se si esprimono dubbi? «Si può essere attaccati, non solo dai genitori o dalle organizzazioni di interesse, ma anche dai colleghi dello stesso centro», conclude la dottoressa anonimizzata. La prevalenza di autismo e Sindrome di Asperger viene confermata anche dal luminare di psichiatria infantile dell’università di Göteborg, Christoffer Gilberg.

Un’altra figura che non ha risposto all’invito della Svt è stata Cecilia Dhejne, ricercatrice psichiatrica del Karolinska Institutet nell’ambito del progetto Anova, celebrata dalle associazioni del settore come un modello nel trattamento della disforia di genere. Avrebbe dovuto rispondere alla domanda se Anova tendesse a trattare i pazienti con eccessiva condiscendenza rispetto alle loro autodiagnosi.

L’esperto di psichiatria infantile Fredrik Lundkvist, che già tempo prima aveva pubblicato un editoriale sul quotidiano nazionale Svenska Dagbladet, interviene con un’altra sentenza che fischia alle orecchie come una delle tante pallottole sparate in questa guerra mediatica: «È un tipo di trattamento basato su qualcosa di completamente diverso dall’evidenza scientifica».

Nel secondo episodio compaiono Martina Hedrenius e Mikael Kruse, che raccontano le proprie esperienze attraverso il trattamento della disforia di genere e di come siano stati influenzati nel percorso dalla Rfsl: Martina è un uomo biologico che si identifica come donna, ma ha rinunciato a prendere ormoni nel timore degli effetti collaterali, e di conseguenza non ha mai cambiato il genere legale; Mikael, invece, è un uomo con sindrome di Asperger e con un passato trans sotto il nome di Julia, e commenta così il suo trascorso: «Mi è stata fornita una soluzione ben impacchettata in risposta al fatto di essermi sentito male per così tanti anni».

Solo nel terzo episodio scendono in campo le superstar del dibattito, e per una volta si misura nel confronto anche una figura che osserva questo fenomeno in maniera meno critica, ovvero la parlamentare verde Ulrika Westerlund, già presidente di Rfsl, che ha promosso una riforma per separare la definizione di genere dal trattamento medico.

Questa riforma era stata discussa dal governo di centro-sinistra sotto la guida di Stefan Lofvèn con il limite di dodici anni per il cambio di genere anagrafico e quindici per gli interventi correttivi, ma il limite di età della proposta è stato innalzato dal governo di Magdalena Andersson del quale i Verdi non facevano parte. La riforma è in discussione anche presso l’attuale governo di centro-destra, che però è diviso sul tema: a oggi, per il cambio di genere legale e chirurgico è richiesta la maggiore età.

A commentare questa discussione, compare la nota scrittrice e giornalista irlandese Helen Joyce, spesso accusata di transfobia dalle organizzazioni di interesse. Joyce paragona il discorso a quello avvenuto negli anni Novanta sulla memoria rimossa (spesso collegata a ipotetiche violenze sessuali), criticando l’approccio che si può trovare su internet: «Ogni persona che cerca in rete le risposte al proprio disagio, troverà esclusivamente conferme alla propria autodiagnosi».

E sulla proposta di legge conclude: «Quando persone al mondo sono trans? Lo 0,1 per cento? L’uno per cento? Con questi numeri sarebbe possibile effettuare valutazioni caso per caso, invece si pensa a proporre leggi che ridefiniscono il concetto di uomo e donna e questo coinvolge il cento per cento della popolazione, colpendo in particolar modo i giovani più vulnerabili».

 
Pubblicato : 12 Ottobre 2023 04:45