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Dove ci rifugiamo quando il presente sembra sfuggirci dalle mani

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(@emma-besseghini)
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Durante l’infanzia inventare mondi è un gioco, costruire realtà parallele e invitare altre persone a calarsi in un nuovo universo di significati è la prassi. L’immaginazione e la fantasia sono il motore della ricerca di un altrove fittizio e fiabesco. Oggi, l’immaterialità di una realtà alternativa non rimane sul piano dell’invenzione, ma è stata tradotta su quello della materialità e della contingenza: il virtuale è reale.

Lo spazio che qualche anno fa era delineato dall’estro e dall’originalità individuale ha sempre meno spazio, viene costretto da un mondo pieno di immagini, segni e simboli. L’impressione è che non ci sia più spazio per l’immaginazione, che si sia già pensato a tutto. Meme, AI, realtà aumentata, trend, vibe sembrano aver saturato lo spazio di archiviazione rendendo difficile pensare a qualcosa che sia veramente inedito.

«È vero: la tecnologia negli ultimi decenni ci ha offerto strumenti sempre più accessibili per creare mondi digitali e virtuali, però io non credo che questo abbia eliminato il piano dell’immaginazione – racconta a Linkiesta Etc Valentina Tanni, storica dell’arte, curatrice, docente e autrice dei libri “Memestetica” e “Exit Reality” -. L’immaginazione è una delle caratteristiche dell’essere umano, è forse anche un suo bisogno, perché noi continuiamo a vivere parzialmente nella nostra mente e la nostra percezione influenza poi la realtà e il modo in cui noi la percepiamo».

Il tema dell’invenzione della realtà alla base dell’esperienza del gioco, sia intesa come puro esercizio di fantasia, sia volta a indicare una costruzione di veri e propri universi virtuali alternativi all’interno dei quali si svolgono le avventure dei videogame, è stato uno dei temi trattati durante la sesta edizione di FotoIndustria, la biennale di fotografia dell’industria e del lavoro organizzata dalla fondazione MAST di Bologna, visitabile fino al 26 novembre.

Dodici mostre – undici personali e una collettiva – che approfondiscono il tema dell’industria del gioco. In apertura, la mostra dell’artista tedesco Andreas Gursky “Visual spaces of today”, dove viene esplorato il processo di invenzione dello spazio reale nei giochi e nei videogiochi, fotografando i luoghi contemporanei caratteristici di una società prospera, dinamica, post-industriale, globale e improntata al capitalismo finanziario. L’artista mira a dilatare ciò che viene colto e fissato temporalmente e geograficamente, in modo tale che trascenda dalla concretezza.

Andreas Gursky, Toys_R_Us, 1999. Courtesy of Sprüth Magers

Anche l’artista Cécile B. Evans con la videoinstallazione “Reality or not” racconta una storia che mira a estendere i limiti del reale: un gruppo di studenti e studentesse prendono parte a un esperimento finalizzato ad appropriarsi della realtà che li circonda, modificandola in modo indipendente. Evans dedica la sua ricerca alla trasformazione del concetto stesso di realtà in una società sempre più affollata dalla presenza di mondi digitali alternativi. Per farlo, mette in discussione la possibilità di distinguere tra reale e virtuale nel contemporaneo e si interroga sulle ricadute psicologiche e cognitive di questa commistione.

«Il digitale non è così irreale come si potrebbe pensare – continua Tanni –. Ciò che chiamiamo “reale” è fortemente influenzato da quello che pensiamo. La vera differenza è che in altri periodi storici questo “avvitare mondi” passava solo attraverso la letteratura e il cinema; significava immergersi in universi narrativi creati da qualcun altro, ma era un’esperienza prettamente psicologica, non fisica. Oggi, invece, possiamo anche parteciparvi attivamente».

La dicotomia reale-virtuale traballa da anni: sono diventati progressivamente due mondi compenetranti, comunicati, fluidi. I limiti tra i due concetti si assottigliano, le parole si somigliano. «Esiste però una tendenza verso un bisogno di evasione e creazione di alternative artificiali al mondo in cui viviamo – aggiunge Valentina Tanni –. La pratica del “world building” nasce da un una sensazione generalizzata di impotenza rispetto ai cambiamenti che si potrebbero operare nella società reale. Questo è dovuto al fatto che viviamo in un momento storico complesso e soprattutto le generazioni più giovani riscontrano una difficoltà nel vedersi proiettati nel futuro. Lo scenario è fosco sotto tanti punti di vista: crisi ecologica, guerre, problemi economici, mancanza di lavoro… Sono tutte questioni pratiche che riguardano la vita quotidiana, e turbano soprattutto chi ancora non è inserito completamente nella società, chi sta ancora cercando un posto nel mondo».

Unsplash

Un esempio di world building sono le “back rooms”, un trend partito da un thread sul forum di 4Chan nel 2018 nato da un piccolo spunto: una fotografia pubblicata su una pagina web che ha poi acceso l’immaginazione di milioni di utenti, dando vita a narrazioni e mondi molto complessi. «Se non stai attento e fuoriesci dalla realtà nelle aree sbagliate, si finirà in retrobottega, dove non c’è altro che la puzza di un vecchio tappeto umido, la follia di un giallo monotono, l’infinito rumore di fondo di luci fluorescenti al massimo ronzio e circa seicento milioni di miglia quadrate di stanze vuote suddivise a caso per intrappolati. Dio ti salvi se senti qualcosa nelle vicinanze, perché sicuramente ti ha sentito», scrive un utente per descrivere le back rooms. Si tratta quindi di non-luoghi di internet in cui si finisce per sbaglio, quasi per sfortuna: stanze vuote e inquietanti, una prigione di un sogno lucido, un luogo in cui si capita quando si esce per errore dalla realtà in cui dovremmo vivere.

 
Pubblicato : 16 Novembre 2023 05:45