Come si fa a rimanere umani davanti alla tragedia quotidiana della guerra
L’immagine della videocamera posizionata sul casco di un soccorritore di Kramatorsk trema, sobbalza, cerca di mettere a fuoco l’angolatura poco nitida, inquadra due mani che provano ad alzare una lastra di cemento, quasi polverizzata, tentano e ritentano e alla fine ci riescono. Si intravedono la testa, le spalle, il busto di una donna che in quel momento sta per nascere una seconda volta, tirata fuori dalle macerie di casa sua, la casa che doveva proteggerla e che invece l’ha quasi sepMONDO pellita viva. Quelle mani dei soccorritori ora sono a Kherson, scavano nel fango portato dall’acqua putrida e inquinata, traboccata dopo l’esplosione della diga a Kakhovka. Scavano e tirano fuori un cucciolo, ancora vivo benché ricoperto di melma, anche lui oggi è nato una seconda volta. Bombe, detriti, macerie, buio e acqua piovono sugli ucraini da sedici mesi di guerra (quella su larga scala, dopo la prima invasione del 2014 da parte della Russia) e, ogni volta, davanti ad atrocitingiuste e non meritate, salgono l’odio, la rabbia, la disperazione che fanno saltare i nervi, che fanno straripare dal dolore tutti i fiumi e tutti i mari.
Sembra un loop quello che vivono gli ucraini ogni giorno muovendosi verso il rifugio antiaereo, aspettando la fine delle sirene, scrollando internet per scoprire che non tutti i missili russi sono stati abbattuti dall’antiaerea. Poi corrono a pulire la macerie, a cercare i sopravvissuti, a rimettere a posto ogni pezzetto distrutto dal maledetto missile. E in questa, che è ormai diventata un’assurda quotidianità, gli ucraini cercano di non perdere il lato umano, di non snaturarsi e ripetono come un mantra (oltre a un «Grazie alle Forze armate d’Ucraina»): «Siamo brave persone, siamo persone buone».
Come si fa a rimanere umani davanti alla tragedia, ormai quotidiana, che ti ha distrutto tutta la vita, che l’ha trasformata in un semplice essere qui e ora perché il domani potrebbe non arrivare mai? È un’incertezza che parte dalla vita in prima linea, appesa a un filo e limitata allo spazio di una trincea, e arriva fino alle retrovie dove tutto viene scandito al ritmo della guerra: andare a scuola, se c’è una scuola, andare al lavoro, se c’è un lavoro, tornare a casa, se c’è ancora una casa, andare al funerale di un soldato, visitare un cimitero militare, donare ogni giorno il costo del caffè ai droni perché quelli al fronte vanno via come il pane, amare se c’è ancora qualcuno da amare.
E, a dispetto di questo essere incrinati, gli ucraini trovano una buona parola per una persona tirata fuori dalle macerie e una carezza per un cucciolo salvato dal fango. In questa continua sofferenza fisica e morale provocata dalla guerra, un ucraino fa uno sforzo colossale per mantenere un equilibrio mentale e per non snaturarsi, fa uno sforzo da titani per non cadere nel tranello del calvario di odio e di disperazione.
Siamo sotto gli occhi di tutto il mondo e, mentre ormai la ferocia dell’esercito russo non fa più scandalo, ogni mossa di ogni ucraino viene perlustrata e guardata sotto la lente di un microscopio. Dopo otto anni di guerra e sedici mesi di invasione su larga scala, dobbiamo ancora giustificarci, spiegando che non siamo nazisti, che non ci bombardiamo da soli, che il presidente Volodymyr Zelensky non è stato messo al potere dagli americani, che non siamo guerrafondai e che non vogliamo questa guerra ma siamo anzi i primi a volere la pace.
La regola di chi la spara più grossa e più forte funziona ancora, purtroppo, anche nel caso dell’esplosione sulla diga a Kakhovka; mentre gli ucraini, scioccati dall’ennesimo disastro, stavano finendo le riunioni di governo, la Russia aveva già fatto le prime dichiarazioni, colpa nostra, quindi, e l’abbiamo pagata perdendo tempo a raccogliere le prove per discolparci. Dobbiamo sempre raccogliere prove, documentare tutto, essere pronti a ogni evenienza – dall’esplosione della diga ai fallimenti della controffensiva – per non sentirci dire che le fosse comuni a Bucha le abbiamo orchestrate noi e che non possiamo perdere i preziosi aiuti militari occidentali durante la controffensiva, semmai possiamo perdere solo gli uomini ucraini che devono proteggere i Leopards o gli Himars così difficilmente ottenuti.
Nessun passo falso, nessuna parola fuori luogo, nessuna spiegazzatura della felpa mimetica di Zelensky. Quando ogni giorno seppelliamo i morti, quando piangiamo ai funerali, quando corriamo per salvarci nei rifugi antiaerei (perché, nel solo mese di maggio, ci sono stati diciotto attacchi contro la capitale ucraina), quando abbattiamo i missili russi (e dobbiamo anche calcolare la traiettoria dei detriti), quando non vogliamo stringere la mano alle tenniste russe o bielorusse (apertamente sostenitrici di Aljaksandr Lukashenka) sul campo del Roland Garros e alla fine veniamo anche fischiate, dobbiamo ricordare che ci sono tutte le videocamere del mondo a guardarci. Un promemoria che non sembra valere per lo Stato terrorista che di quelle videocamere se ne infischia.
Invece noi dobbiamo sempre mantenere la calma, la faccia, la compostezza. Nel fingere che niente ormai ci faccia più male, perché ormai siamo di ferro e di ottone, non scordiamo di ripeterci che siamo persone buone, che siamo brave persone. Perché alla fine, quando arriverà il giorno del giudizio, non sarà giudicato solo il nemico ma saremo giudicati anche noi per come abbiamo resistito e per questo è meglio evitare le spiegazzature adesso, perché il diritto di portare l’abito stropicciato ci è stato negato in partenza, insieme con la nostra vita.
Il cucciolo si aggrappa alla mano del soccorritore che sposta la lastra di cemento e tira fuori una donna sopravvissuta e allo stesso modo anche noi ci aggrappiamo, a quelli che in ogni parte del mondo hanno una parola buona, un gesto buono nei confronti di gente un po’ spiegazzata. Abbiamo tanto bisogno di parole e di gesti buoni, di bandiere ucraine ovunque, per non doverci ripetere in continuazione da soli che siamo delle brave persone. Vogliamo sentircelo dire, senza presentare prove, che valiamo tutti i Leopards e tutti gli Himars che ci sono stati inviati, perché questo ci dà la forza per aiutare a salvare le vite di altri cuccioli e di altri civili. Il concetto di empatia non deve mai essere sottovalutato, è quella spiegazzatura dell’animo umano che lo rende il più naturale possibile, come il lino non stirato che dona leggerezza e freschezza nel periodo caldo, che fa sentire liberi nei movimenti, che fa sentire a casa.
Dopo otto anni e sedici mesi di guerra siamo rimasti ancora delle brave persone. E questa, forse, è la nostra resistenza più grande.
-
Mangiare bene a Monza in cinque indirizzi
3 giorni fa
-
Come ti guido una Maison
3 giorni fa
-
Oddio, non mi starete dicendo che le idiozie dei buoni hanno perso le elezioni?
3 giorni fa
-
La squadra più hipster di tutto il Belgio
3 giorni fa
-
La fuga dalle notizie, e il progressivo allontanamento di media e lettori
3 giorni fa