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Calvino è diventato il classico della contemporaneità

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(@iuri-moscardi)
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Mi sono scelto un lavoro che ha a che fare con i libri, quello che – come a volte si dice – combina passione e professione. Ogni giorno, entro in contatto con scrittori e scrittrici, con i quali però ho una relazione indiretta: quasi tutti sono morti (uno dei modi di dire dell’accademia è che di solito si studiano solo i morti). Questo mi offre l’opportunità di seguire le tracce che hanno lasciato, che sono fatte di inchiostro su carta (o bit digitali su schermo): tracce di letteratura e, molto spesso, indirettamente di vita. Non è facile rintracciarle, ma ricostruirle a posteriori è entusiasmante: è come incastrare i pezzi di un puzzle.

Domenica 15 ottobre celebriamo i cento anni dalla nascita di Italo Calvino. Con Calvino ho avuto, e ho tuttora, una relazione non troppo stretta. L’ho letto con attenzione discontinua, tra gli anni del liceo – anche se non ricordo rientrasse esattamente nel programma, ma quali autori che stimolano la curiosità degli adolescenti ci sono mai rientrati? – e quelli dell’università, a Milano, durante i quali l’ho approcciato sotto la guida di un docente rigoroso ed esperto come Bruno Falcetto. Essendo Pavese il mio autore di riferimento, Calvino ai miei occhi viveva di luce riflessa: dai tempi dell’università ricordo la definizione di «scoiattolo della penna» che proprio Pavese gli affibbiò quando – giovanissimo – iniziò ad affacciarsi sempre più frequentemente nei corridoi dell’Einaudi, dove entrambi lavoravano.

Era una definizione che trovavo, e trovo, bellissima: sottintende una complicità stretta e quel riconoscimento affettuoso e orgoglioso che un padre o un fratello maggiore a volte sanno concedere. E infatti Calvino replicava con orgoglio, altra memoria dei corsi universitari, di essere entrato anche lui – giovane poco più che ventenne – nella grande famiglia dello Struzzo. Avrei poi scoperto anni dopo, studiando Pavese, una delle più ironiche – e acute – analisi che abbia mai letto dei suoi libri: il giovane scoiattolo era diventato in poco tempo confidente e critico dell’illustre romanziere. A cui scrisse che Clelia – la protagonista del romanzo pavesiano “Tra donne sole” – non era altro che Pavese stesso, «una donna-cavallo pelosa, con l’alito che sa di pipa e la parrucca e i seni finti».

Agli occhi del me ventenne Calvino aveva tutte le caratteristiche per diventare un mito. E infatti Calvino rimane uno degli autori che i lettori giovani preferiscono: ricordo quando, sempre ventenne, con degli amici fondammo una rivista letteraria, e uno dei nostri motti era la famosissima frase calviniana per cui «a volte uno si sente incompleto ma è soltanto giovane». Senza contare tutti i protagonisti giovanissimi, poco più che bambini, dei suoi libri. Eppure, per qualche motivo Calvino mi rimaneva sfuggente: trovavo il suo stile troppo asciutto, la sua narrazione basata su costruzioni troppo logiche e scientifiche. 

Ma, come dicevo, per lavoro mi occupo di seguire le tracce di vita e di letteratura di scrittori e scrittrici. E queste indagini prendono mille forme diverse, spesso intricate, con un unico comune denominatore: la consapevolezza di quanto la letteratura filtri la vita di questi autori allo stesso modo in cui la loro vita ne filtra la scrittura. Aggiungendo ogni volta un piccolo tassello alla comprensione del complesso meccanismo per cui un essere umano decide di raccontare una storia. Tornando a Calvino, la mia indagine si è arricchita di due percorsi che mai avrei immaginato, a vent’anni. Il primo è stato un percorso attraverso i microtesti della cosiddetta twitteratura. Anche in quella occasione c’era un anniversario tondo da festeggiare: i novanta anni dalla nascita di Calvino. E l’Associazione Culturale TwLetteratura organizzò #Invisibili, un progetto di quella che allora definivamo riscrittura social e che rientra a pieno titolo nel cosiddetto Digital Social Reading.

Dal 23 settembre al 16 novembre 2013, ogni utente di Twitter ebbe l’opportunità di leggere e commentare con i propri tweet “Le città invisibili” attraverso riassunti, citazioni, rifacimenti, associazioni con foto e video o l’attualità; l’unica regola era dedicarsi a una sola città al giorno, tutti insieme. Non avevo ancora letto il libro, e leggerlo per partecipare a quel progetto fu illuminante (un giorno, dieci anni dopo, l’analisi di parte di quei tweet sarebbe stata nella mia tesi di dottorato; ma questo, come molte altre cose del passato, non lo potevo sapere).

Realizzai che Calvino è un autore davanti al quale bisogna arrendersi: a nessun autore bisogna chiedere conto di come stravolge la realtà, come ci insegna Coleridge, ma a Calvino men che meno. La bellezza e la grandezza della sua scrittura stanno nel far credere a noi, così come a Kublai Khan, che ciò che Marco Polo racconta sia vero. O, meglio, verosimile. La grande letteratura è questo: ci credo, dunque mi immedesimo. E infatti quei tweet furono così potenti che alcuni dei partecipanti a #Invisibili ne trassero dei disegni, opere d’arte che girarono l’Italia in mostra.

Ma non era finita. Un salto in avanti di sette anni ed eccomi in un contesto inimmaginabile, nel 2013: dottorando in letterature comparate a New York, con in testa una tesi dedicata a Pavese, Calvino e altri autori letti e riassaporati attraverso la twitteratura. Nel fatidico 2020 che nessuno di noi mai dimenticherà, mi viene offerta la possibilità di insegnare il mio primo corso di letteratura italiana: i dottorandi, negli Stati Uniti, insegnano fin dal primo anno ma, fino allora, avevo insegnato solo lingua. La professoressa del Queens College che mi offre questa fantastica opportunità, Morena Corradi, mi lascia carta bianca: posso scegliere autori e opere, basta che siano coerenti con l’obiettivo del corso, la cultura italiana in traduzione. Decido di far scoprire ai miei studenti americani il modo in cui scrittori e registi italiani hanno immaginato, e rappresentato nelle loro opere, proprio l’America (tanti, peraltro, non mettendoci mai piede, come Pavese).

Ricordo di avere visto, in ogni libreria newyorkese in cui avessi messo piede, le copertine bianche dei libri tradotti di Calvino, e lo inserisco nel corso: ma come adattarlo? La fortuna (editoriale) mi viene in aiuto perché scopro che nel 2014 è stato pubblicato “Un ottimista in America”, raccolta di impressioni diaristico-saggistiche del primo viaggio americano di Calvino a New York, nel 1959. Un libro che lui stesso, tuttavia, aveva deciso di non pubblicare. È una scoperta eccezionale, che avvicina Calvino a me e a tutti i miei studenti: leggiamo del suo stupore all’arrivo a New York, in nave, davanti ai grattacieli che gli sembrano le rovine della New York del passato, viste tra tremila anni, ma che con la luce del sole cambiano prospettiva. Lo vediamo alla scoperta della città, che possiamo solo immaginare totalmente diversa da quella che, nel 2020, si lecca le ferite del Covid. Sorridiamo davanti alle ingenuità che ho commesso anche io, come ognuno la prima volta a New York, e restiamo sbalorditi dagli incontri, le conversazioni, le visite. 

Altro salto in avanti, quello finale (che, chissà, magari anche Calvino avrebbe apprezzato). È il 2023, cento anni fa Italo nasceva a Santiago di Cuba da genitori che vi si erano trasferiti per fare gli agronomi. Cento anni fa, tutto era ancora in potenza: la Storia si sarebbe manifestata e Italo, sia da giovane che più maturo, avrebbe fatto davanti a lei le sue scelte. Tra le tante citazioni memorabili di Calvino, quella che ogni letterato ricorda è: un classico è un libro che ha qualcosa da dire anche decenni o secoli dopo la sua pubblicazione. Se è così, Calvino è stato sicuramente un classico della contemporaneità e, probabilmente, continuerà a esserlo per molti anni. E a noi rimane il privilegio di poterlo leggere per scoprire, nelle sue pagine, un po’ di vita e un po’ di finzione mescolate insieme per raccontarci chi siamo. 

 
Pubblicato : 14 Ottobre 2023 03:45