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Suicidio assistito: quando è possibile

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(@angelo-greco)
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Eutanasia e suicidio assistito: differenze, procedura e condizioni. La guida.

Con due sentenze, la n. 242/19 e la n. 135/24, la Corte Costituzionale ha chiarito quando è possibile il suicidio assistito. Il tutto in attesa di una riforma che il Parlamento non riesce (e non vuole) attuare. Nel frattempo, sarà l’Asl ad accertare il diritto, per chi soffre troppo per un male incurabile, a ottenere la “dolce morte”. Ma quali sono le malattie per cui è possibile il suicidio assistito, qual è la procedura e cosa rischia materialmente chi aiuta una persona a morire? Cerchiamo di fare il punto della situazione sulla scorta dell’attuale quadro giurisprudenziale.

Suicidio assistito: cos’è?

Il suicidio assistito è una pratica che consiste nell’aiutare una persona a togliersi la vita in modo volontario e consapevole.

È importante sottolineare la differenza tra suicidio assistito ed eutanasia.

L’eutanasia è un atto compiuto da un medico o da un altro operatore sanitario che provoca direttamente, con le proprie stesse mani, la morte del paziente, su esplicita richiesta di quest’ultimo, al fine di alleviare una sua sofferenza intollerabile.

Nel suicidio assistito, invece, è il malato stesso a compiere materialmente l’azione che porta alla morte, assumendo ad esempio un farmaco letale, iniettandosi il medicinale mortale tramite una siringa o utilizzando altri mezzi. Il ruolo del sanitario si limita solo ad “assistere” appunto l’infermo, fornendogli il farmaco, le informazioni o il supporto necessari per il suicidio.

Quindi, se l’eutanasia non necessita della partecipazione attiva del soggetto che ne fa richiesta, il suicidio assistito sì.

Il suicidio assistito si distingue inoltre dalla sospensione delle cure, ossia dall’interruzione dei trattamenti che tengono in vita il malato (ad esempio con macchine, ventilatori e altri apparecchi).

In Italia, l’eutanasia è illegale. Nessuno può procurare la morte a un’altra persona, neanche se è quest’ultima a chiederlo.

Al contrario, il suicidio assistito è legale, ma non è ancora disciplinato da alcuna normativa. Come detto in apertura, è stata la Corte Costituzionale a cancellare il reato a carico di chi assiste un malato terminale a togliersi la vita. Le condizioni per tale pratica restano però definite solo da una sentenza e vengono quindi controllate dall’Asl caso per caso (approfondiremo questo discorso più avanti).

Infine la sospensione delle cure è lecita. Ogni paziente infatti ha un diritto costituzionale di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza.

A stabilire la legalità dell’interruzione delle cure sono:

  • l’articolo 32 della Costituzione: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»;
  • l’articolo 1 della legge 219/2017: «Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale».

Quando è possibile il suicidio assistito?

La Corte Costituzionale ha detto che il suicidio assistito è possibile solo al ricorrere delle seguenti condizioni:

  • la patologia deve risultare con esito irreversibile;
  • l’ammalato deve patire sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili;
  • il malato deve dipendere da trattamenti di sostegno vitale;
  • il malato deve essere in grado di assumere decisioni libere e consapevoli.

La Corte Costituzionale ha più volte sottolineato la perdurante assenza di una legge che regolamenti la materia, auspicando che legislatore e servizio sanitario nazionale assicurino una concreta e puntuale attuazione ai principi fissati della sentenza 242/19. Sempre la Consulta, nella più recente pronuncia n. 135/2024 ha rivolto un appello affinché sia garantita a tutti i pazienti un’effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza in base alla legge 38/2010.

Cosa si intende per trattamenti di sostegno vitale?

Ha diritto al suicidio assistito non solo il paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, ma anche quello che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali. Dal momento che anche in tale situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza 242/19.

Spetta al sistema sanitario nazionale accertare la presenza di tali presupposti.

Quanto al requisito del trattamento di sostegno vitale, secondo la Corte Costituzionale il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Sono dunque comprese quelle procedure che, di regola, vengono compiute (anche a casa del malato) da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o caregivers che si fanno carico dell’assistenza del paziente.

Ecco qualche esempio: l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali.

Questi ultimi sono necessari ad assicurare funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione ne determinerebbe prevedibilmente la morte in breve tempo. Pertanto sono da considerare come trattamenti di sostegno vitale.

Tutte queste procedure, puntualizza ancora la Consulta, proprio come l’idratazione, l’alimentazione o la ventilazione artificiali, possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, che, in questo modo, esercita il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte.

Per la sclerosi multipla è possibile il suicidio assistito?

Nella richiamata sentenza del 2024, la Consulta ha detto che la sclerosi multipla di grado avanzato non consente ancora di ricorrere al suicidio assistito anche se il paziente è in stato di quasi totale immobilità. E ciò perché manca il requisito della dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Non rileva quindi, da sola, l’acuta sofferenza che il malato è costretto a patire nonché l’irreversibilità della malattia.

Per la Corte Costituzionale il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non determina irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti. La sentenza 242/19 non riconosce un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile determinata da una patologia irreversibile, ma ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità di scelta – già hanno il diritto riconosciuto dalla legge 219/17 di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile diritto non si estende quindi anche ai pazienti che non dipendono da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti.

Chi verifica le condizioni per il suicidio assistito?

Le condizioni e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio siano verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge 219/17, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Il giudice penale può comunque accertare la sussistenza di tutti i requisiti dell’eventuale reato.

 
Pubblicato : 19 Luglio 2024 09:45