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Su cosa possono riferire i testimoni?

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(@paolo-remer)
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Si può dire in un processo ciò che si è appreso da altri oppure è vietato? Testimonianza indiretta: come funziona e quali sono i limiti.

Si racconta che San Filippo Neri, confessando una donna pettegola, le diede come penitenza il compito di spennare una gallina, disperdere le piume al vento e cercare di raccoglierle. Impossibile da fare, ma utile per dimostrare che quando si è messo in giro un pettegolezzo non c’è modo di fermarlo. In ambito giuridico, c’è un paletto per arginare il fenomeno: infatti è risaputo che quando una voce circola parecchio e passa di bocca in bocca, alla fine non si sa più se sia effettivamente vera o no. Andando alla radice, l’unica cosa che conta quel fatto non è stato constatato direttamente, ma è stato appreso da un amico, da un collega, da un conoscente o anche da un estraneo incontrato al bar o dal parrucchiere. Quindi – a prescindere dalla maggiore o minore attendibilità di chi lo racconta – non si sa se sia vero o no. È impossibile stabilirlo senza ascoltare la fonte di prima mano e rivolgergli le opportune domande.

Ma allora in un processo su cosa possono riferire i testimoni? Soltanto su ciò che hanno visto e constatato con i loro occhi? Talvolta no, e quindi in determinati casi l’oggetto della testimonianza può essere più ampio. È chiaro, però, che nel processo, sia civile sia penale, il “sentito dire” non basta di certo per raggiungere una valida prova dei fatti affermati. Ma il criterio di valutazione può essere diverso per qualcosa che ci è stato confidato da una fonte diretta, ad esempio un familiare stretto o un amico intimo, e che magari non può più parlare, per morte o grave infermità: in questi particolari casi in una testimonianza si può dire ciò che si è appreso da altri, ma non bisogna crederci in modo assoluto, perché il racconto potrebbe non essere vero.

Le dichiarazioni pesano molto, quando vengono rese davanti all’Autorità giudiziaria in forma di rituale testimonianza, quindi con l’obbligo di «dire la verità e non nascondere nulla sui fatti di cui si è a conoscenza», come recita la formula da dichiarare prima di deporre: quelle parole possono costituire la base per far condannare qualcuno. Insomma, la testimonianza è una cosa molto seria (la falsa testimonianza è un grave reato), e i Codici di procedura, civile e penale, ne disciplinano attentamente le modalità di acquisizione e di utilizzo.

Testimonianza indiretta nel processo civile: come funziona

Nel processo civile è tutto abbastanza semplice: l’art. 257 del Codice di procedura civile dispone che «se alcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice istruttore può disporre d’ufficio che esse siano chiamate a deporre». Questa è la testimonianza cosiddetta “de relato”, quella di cui ci stiamo occupando, e che riguarda i fatti appresi dal testimone non direttamente, bensì in quanto riportati al testimone da altre persone. Un esempio chiarirà la differenza.

Gino Attori viene sentito come testimone in una causa perché ha assistito personalmente al pagamento di un debito, che è stato saldato in contanti in sua presenza: ha visto con i suoi occhi la consegna del denaro. Lo riferisce al giudice e aggiunge che insieme a lui era presente anche sua moglie, e ha visto tutto. Così il giudice chiama anche la donna a deporre su questa circostanza che ella ha appreso direttamente: non è una testimonianza de relato.

La signora Benedetta Convenuti viene citata come teste da una sua amica, impegnata in una causa di separazione coniugale. Dovrebbe parlare dei tradimenti compiuti dal marito di questa donna, ma può soltanto dire di aver appreso qualche pettegolezzo da alcune clienti del suo parrucchiere incontrate occasionalmente e dai colleghi di lavoro. Di questi ultimi è in grado di fare i nomi: sono costoro che (forse) hanno constatato  direttamente i fatti, e dovranno testimoniare al riguardo.

Il giudice può risentire i testimoni già escussi?

La stessa norma del Codice di procedura civile specifica che il giudice «può disporre che siano nuovamente esaminati i testimoni già interrogati, al fine di chiarire la loro deposizione o di correggere irregolarità avveratesi nel precedente esame». In determinati casi, quindi, il giudice può risentire i testimoni già escussi e riconvocarli per porgli ulteriori domande: perciò non bisogna meravigliarsi se si riceve una nuova citazione a comparire per la medesima causa in cui si era già stati sentiti.

A tal proposito una nuova ordinanza della Cassazione [1] ha spiegato che il giudice «non è un mero registratore passivo», che si limita ad ascoltare e recepire quanto dichiarato dal testimone, bensì «un soggetto attivo, al quale l’ordinamento attribuisce il potere – dovere, non solo di sondare con zelo l’attendibilità del testimone, ma anche di acquisire da esso tutte le informazioni indispensabili per una giusta decisione». Quindi il giudice può e deve porre al teste tutte le domande utili a chiarire i fatti di causa.

Testimonianza de relato nel processo penale: quando è vietata

Abbiamo visto che il testimone indiretto, o de relato, racconta fatti che ha appreso da altri soggetti e non ha percepito direttamente. Perciò la sua dichiarazione va presa con le pinze e valutata attentamente: da sola non può bastare per far condannare l’imputato. La legge [2] stabilisce che «quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre», in modo che siano esaminati i testimoni diretti, altrimenti le deposizioni rese dai testimoni de relato sono inutilizzabili. Le uniche eccezioni a questo principio riguardano i casi di morte, infermità o irreperibilità dei testimoni diretti, e allora quelle dei testimoni indiretti possono avere valenza; ma in ogni caso «non può essere utilizzata la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame».

Quindi non si può dare fede a chi non sa – o non vuole – dire come, quando e soprattutto da chi ha appreso le circostanze di cui ha parlato durante l’esame dibattimentale. Tale principio è stato ribadito di recente dalla Corte di Cassazione in una sentenza [3] che puoi leggere per esteso a fondo pagina, riguardante l’estensione del divieto di testimonianza indiretta anche agli ufficiali o agenti di Polizia giudiziaria che hanno svolto le indagini e, pertanto, potrebbero essere a conoscenza di fatti loro riferiti dai veri testimoni dell’accaduto: questi soggetti devono essere citati ed escussi, a meno che ciò non sia impossibile, altrimenti la testimonianza de relato del poliziotto non vale. La vicenda concreta riguardava la falsa sottoscrizione di moduli di presentazione delle liste elettorali, che alcuni firmatari avevano disconosciuto alla Polizia, ma poi non erano stati citati in dibattimento; la Corte ha annullato la condanna nei confronti dell’uomo politico perché i «testi primari» non erano stati escussi, e non bastava la deposizione del poliziotto che aveva riferito nel processo ciò che essi gli avevano dichiarato durante le indagini.

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Pubblicato : 9 Novembre 2022 11:00