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Stress lavorativo: quando il datore risarcisce il dipendente?

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(@angelo-greco)
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Il lavoratore è esonerato dall’onere della prova del danno da usura psicofisica: resta necessaria la consulenza per il danno biologico.

In un contesto lavorativo sempre più esigente, non c’è lavoratore che, al termine della giornata, non si dica stressato. Non è più solo un modo di dire: stiamo mettendo da parte il nostro benessere psicofisico per inseguire una carriera che ci appaghi. Ma se la causa di tale stato non è il nostro stakanovismo ma l’atteggiamento esigente dei superiori, allora sarà bene conoscere i propri diritti e le tutele previste dalla legge. Analizziamo quindi le situazioni in cui un datore di lavoro può essere tenuto a risarcire il dipendente per lo stress lavorativo.

Una recente sentenza del Tribunale di Padova, n° 171 del 6 marzo 2024, approfondisce tale tematica, stabilendo un importante precedente. La pronuncia in esame evidenzia come, in presenza di un superamento significativo degli orari di lavoro, il danno da stress lavorativo o da usura psicofisica del dipendente si possa presumere e quindi non richieda una prova specifica. Questa presunzione si basa sull’evidenza che un eccesso prolungato di orario di lavoro, ben oltre i limiti legali e contrattuali, costituisca di per sé una condizione dannosa con potenziali ripercussioni sulla salute psicofisica del lavoratore.

L’importanza di tale puntualizzazione è tutt’altro che scontata. Nel nostro ordinamento infatti vige il principio dell’onere della prova che grava a carico di chi fa valere un proprio diritto che, nel nostro caso, è il dipendente. Peraltro – ha sempre affermato la giurisprudenza – non basta dimostrare un illecito per trarne la conseguenza del risarcimento. È necessaria anche la prova di un danno concreto, attuale e non irrisorio.

In una situazione del genere, spetterebbe quindi al dipendente provare, non solo i turni massacranti e un ritmo stressante di lavoro, ma anche il danno alla salute. Qui invece gli viene incontro la giurisprudenza, sollevandolo da tale onere.

La sentenza sottolinea che il danno da stress lavorativo – o meglio detto usura psicofisica – si inserisce nella più ampia categoria del danno non patrimoniale derivante da inadempimento contrattuale. Si distingue dal danno biologico, che implica una lesione fisica o psichica concreta e necessita di una valutazione medico-legale (CTU). Invece, il danno da stress lavorativo presuppone che le condizioni di lavoro siano state tali da eccedere ampiamente i limiti orari previsti, compromettendo il diritto al riposo del lavoratore, garantito dall’articolo 36 della Costituzione e dalla normativa vigente.

L’inadempimento del datore di lavoro, valutato alla luce delle circostanze specifiche del caso, rende presunto il danno da usura psicofisica. Pertanto, non è necessario un certificato medico o una consulenza tecnica d’ufficio per attestare la lesione alla salute del lavoratore, a differenza di quanto richiesto per il danno biologico.

Detto in altre parole, il danno da stress si presume se il dipendente lavora troppo. Quando il limite dell’orario legale di servizio risulta superato in modo significativo, il datore è condannato a risarcire il dipendente senza che il giudice debba disporre sul punto una perizia.

Il caso specifico analizzato dal Tribunale di Padova riguardava un dipendente che aveva svolto una media di 8,15 ore di straordinario a settimana per oltre sette anni, con periodi di trasferta prolungati, ben oltre i limiti massimi stabiliti dal Decreto legislativo 66/2003 e dal contratto collettivo applicabile. In questo contesto, il Tribunale ha riconosciuto un risarcimento al dipendente, calcolando un indennizzo equitativo basato sulle ore di straordinario eccedenti il limite legale e contrattuale.

Questo orientamento giurisprudenziale sottolinea l’importanza di una gestione del lavoro che tenga conto del benessere psicofisico dei dipendenti, ponendo le basi per un approccio più umano e rispettoso delle necessità individuali nel mondo del lavoro.

 
Pubblicato : 12 Marzo 2024 19:00