Stalking del vicino: si può applicare il divieto di dimora?
La Cassazione chiarisce quando applicare il divieto di dimora per stalking: necessario un cambiamento nelle abitudini di vita.
Il fenomeno dello stalking, sempre più frequente nella società moderna iperconnessa, porta spesso a misure cautelari severe come il «divieto di dimora». Tuttavia, di recente la Cassazione ha posto dei limiti significativi all’applicazione di tale misura, specialmente in casi di rapporti condominiali. Come ben intuibile infatti, il divieto di dimora finisce per essere una misura assai penetrante determinando un sostanziale spossessamento di un bene essenziale per la sopravvivenza, l’abitazione. È quindi necessario un rigoroso giudizio di proporzionalità tra la sanzione applicata e la situazione concreta di grave e oggettivo pericolo per la vittima.
Prima di capire se si può applicare il divieto di dimora in caso di stalking del vicino sarà bene addentrarci in alcuni chiarimenti.
Stalking: come funziona
Secondo l’articolo 612 bis del Codice Penale, il reato di atti persecutori (meglio conosciuto come stalking) si configura quando un individuo pone in essere un insieme di comportamenti molesti e ripetuti, tali da creare un perdurante e grave stato di ansia o paura nella vittima, o da determinare in quest’ultima un fondato timore per la propria incolumità o quella di un prossimo congiunto, o ancora da costringerla a modificare le proprie abitudini di vita.
Questi comportamenti possono includere pedinamenti, minacce, comunicazioni indesiderate e invadenti, e altre forme di intimidazione psicologica o fisica.
Cos’è il divieto di dimora
Il divieto di dimora consiste in una misura coercitiva consistente nel proibire a un soggetto di accedere o dimorare in un determinato Comune o area geografica. L’obiettivo di tale provvedimento è prevenire il ripetersi del reato o la possibilità che il soggetto possa in qualche modo influenzare la raccolta di prove o ancora la sicurezza della persona offesa. Il divieto di dimora è di solito adottato dal giudice nel corso delle indagini preliminari o del processo, quando si ritenga che esistano serie indicazioni di colpevolezza a carico di una persona e che la sua presenza in un certo luogo possa ostacolare l’accertamento della verità o la protezione delle vittime.
Relazione tra stalking e divieto di Dimora
Il divieto di dimora può essere applicato come misura cautelare nei confronti di un individuo accusato di stalking, con lo scopo di proteggere la vittima dal potenziale pericolo costituito dalla presenza dell’inquisito. Tuttavia, come chiarito dalla Cassazione, per applicare tale misura è necessario che siano presenti evidenze concrete di un effettivo cambiamento nelle abitudini di vita della vittima direttamente causato dalla condotta dell’inquisito.
La vicenda
La sentenza 12799/17 della quinta sezione penale della Cassazione riguarda il caso di una coppia accusata di stalking verso alcuni vicini, che aveva il contestato il divieto, che le era stato inflitto dal giudice, di abitare nel proprio Comune di residenza.
La Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che per imporre il divieto di dimora, la semplice esistenza di uno stato di tensione e disagio psicologico non è sufficiente. Bisogna al contrario dimostrare che la vittima abbiano dovuto cambiare il proprio stile di vita a causa dello stato di ansia o paura generato dall’azione persecutoria. Quali possono essere questi cambiamenti? Il fatto di non voler più restare soli a casa, di essere costretti ad andare in albergo per un determinato periodo, di non voler più uscire per paura di incontrare i responsabili o di chiedere sempre la “scorta” di amici e parenti quando bisogna attraversare le aree ove il reo potrebbe trovarsi.
Le liti tra vicini e lo stalking
La sentenza della Cassazione ha l’importante merito di chiarire che non ogni litigio o disagio tra vicini di casa può essere elevato al grado di stalking. Gli atti persecutori richiedono infatti non solo un elemento oggettivo, quello cioè delle reiterate condotte moleste e minacciose, ma anche un elemento soggettivo caratterizzato dai “gravi” effetti che dette condotte determinano sulla vittima. E, come si è detto sopra, tali effetti devono consistere alternativamente in:
- uno stato di ansia o paura,
- un fondato timore per l’incolumità propria o quella di un convivente
- un cambiamento nelle proprie abitudini di vita.
I primi due punti hanno sicuramente una connotazione molto personale. La Cassazione peraltro ha detto che non è necessario produrre certificati medici che attestino lo stato di stress psicologico. Quindi, oltre ovviamente alla valutazione del caso concreto, contano anche le dichiarazioni della parte lesa.
Il terzo punto invece ha una impronta più oggettiva e può essere dimostrato puntualmente.
-
Vaccino non obbligatorio senza consenso informato: c’è risarcimento?
2 giorni fa
-
Come fa il datore di lavoro a sapere il motivo della malattia?
4 giorni fa
-
Residenza persone fisiche: nuove regole
4 giorni fa
-
Quando è illegittimo il contratto a termine?
5 giorni fa
-
Proposta di acquisto casa legata alla concessione del mutuo
6 giorni fa