Società tra marito e moglie: è possibile?
Impresa familiare e società tra coniugi in comunione dei beni: cosa prevede la legge?
È possibile costruire una società tra marito e moglie anche se sono in regime di comunione dei beni? Ed in tal caso, che fine fanno i beni della società nel caso in cui i coniugi dovessero separarsi e poi divorziare? La società tra marito e moglie è una realtà, indipendentemente dal regime patrimoniale da questi adottato: quindi, sia in caso di separazione dei beni che di comunione legale, i coniugi possono creare sia una società di capitali (Srl, Spa, Sapa) che una società di persone (Snc, Sas, società semplice).
Cosa completamente diversa è invece l’impresa familiare che ha un regime completamente diverso.
Di entrambi questi aspetti ci occuperemo qui di seguito. Parleremo innanzitutto dell’orientamento della Cassazione che ritiene possibile la società tra marito e moglie e, in secondo luogo, ci soffermeremo sul concetto di impresa familiare. Ma procediamo con ordine.
Quanti tipi di società ci sono?
Esistono due grandi gruppi di società:
- le società di persone;
- le società di capitali.
Le società di persone sono caratterizzate dalla cosiddetta «autonomia patrimoniale imperfetta»: in termini pratici, significa che dei debiti della società rispondono anche i soci se il capitale sociale dovesse essere insufficiente. In questo modo, il socio rischia anche il fallimento. L’unica eccezione è prevista per i soci accomandanti delle Snc i quali non rispondono con il proprio patrimonio ma possono tutt’al più perdere il capitale investito nella società.
Le società di capitali, invece, hanno una totale autonomia patrimoniale: questo implica che i debiti della società non si ripercuotono sui soci. Per cui, se i creditori non riescono a pignorare i beni della società, non possono poi rivalersi sui soci stessi.
Si può avere una società tra marito e moglie?
La Cassazione spiega che tra coniugi può essere costituita una società [1]. Marito e moglie possono, quindi, siglare un atto costitutivo di società di persone o di capitali, sia che essi si trovino in regime di comunione che di separazione dei beni.
Del resto, è nell’autonomia negoziale dei coniugi decidere le regole organizzative per l’esercizio di un’impresa, optando tra la costituzione di una comune società o per l’impresa familiare (di cui parleremo dopo).
La società diventa quindi un soggetto distinto dalla coppia di coniugi, dotato di propria autonomia giuridica e, nel caso di società di capitali, con un proprio capitale autonomo e distinto da quello della famiglia. In altri termini i creditori della società non potranno mai pignorare i beni della coppia, anche se questa è in comunione dei beni.
Nel caso in cui venga costituita una società di persone, il recesso di un socio comporta l’obbligo della liquidazione della quota.
Come chiarito dalla Cassazione: tra coniugi in regime di comunione legale può essere costituita una società di persone, con un patrimonio costituito dai beni conferiti dagli stessi, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica. Sicché, in caso di recesso di un socio, sorgendo a carico della società l’obbligo della liquidazione della sua quota, la domanda del coniuge receduto di accertamento della comproprietà dei beni sociali può essere interpretata dal giudice come tesa alla liquidazione della sua quota sociale.
Invece, nessun diritto può essere reclamato, neanche dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali durante la vita della società (come invece avviene nell’azienda familiare [2]). Si può solo parlare di liquidazione della quota del socio uscente.
Divisione degli utili nella società di persone
Secondo la Cassazione, a partecipazione di uno dei coniugi ad una società di persone e i successivi aumenti di capitale rientrano tra gli acquisti che costituiscono oggetto della comunione legale tra i coniugi, anche se effettuati durante il matrimonio ad opera di uno solo di essi, anche qualora l’aumento di capitale sia effettuato utilizzando riserve di utili di esercizi precedenti accantonati e non distribuiti. Gli utili di società di persone, ancorché non distribuiti e accantonati a riserva, in mancanza di una specifica delibera sociale in senso contrario, non costituiscono un incremento del patrimonio della società, ma mantengono la loro originaria natura di crediti dei singoli soci nei confronti della società.
I regimi patrimoniali della famiglia
Sono sostanzialmente due i regimi patrimoniali che possono scegliere i coniugi al momento del matrimonio:
- la comunione dei beni;
- la separazione dei beni.
La comunione è il regime ordinario: scatta cioè in caso di mancata indicazione dei nubendi al parroco o all’ufficiale di Stato civile. La comunione implica una comproprietà su tutti i beni acquistati durante il matrimonio. Ne restano, quindi, esclusi i beni di cui i coniugi erano già proprietari prima delle nozze e quelli ricevuti successivamente come frutto di donazioni o eredità. Non rientrano nella comunione neanche i beni per uso personale (ad esempio, abbigliamento e strumenti di lavoro) e i risarcimenti del danno. Il conto corrente individuale non entra nella comunione (per cui ciascun coniuge ne può fare ciò che vuole), ma in caso di separazione va diviso in quote uguali.
La separazione dei beni, invece, implica che ciascun coniuge è proprietario solo dei beni acquistati con i propri soldi anche dopo il matrimonio. Quindi, c’è una netta separazione tra i due patrimoni.
Cos’è l’impresa familiare
Diversa dalla società è l’impresa familiare. Non si tratta di una società vera e propria. In particolare, il lavoro prestato in modo continuativo da un soggetto a favore dell’impresa gestita da un familiare, al quale sia legato da un certo grado di parentela o affinità, riceve una tutela particolare [3].
Il lavoro all’interno dell’impresa familiare si presume gratuito.
I familiari collaboratori hanno diritto a partecipare agli utili dell’impresa, ai beni acquistati con gli stessi e agli incrementi dell’impresa, anche in ordine all’avviamento.
Il diritto del singolo prestatore di lavoro è proporzionato alla qualità e quantità del lavoro prestato. Tale diritto è condizionato dai risultati raggiunti dall’impresa familiare: se non sono realizzati utili, l’imprenditore non ha l’obbligo di corrispondere comunque una retribuzione sufficiente. Il familiare partecipante all’impresa ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia.
Il potere di gestione ordinaria dell’impresa familiare spetta esclusivamente al titolare.
Quanto detto sopra riguarda solo i familiari che abbiano prestato lavoro nell’azienda familiare. Invece, il convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente ha diritto solamente ad una partecipazione, commisurata al lavoro prestato, a:
- utili dell’impresa familiare e beni acquistati con essi;
- incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento.
La disciplina relativa al lavoro nell’impresa familiare si applica solo se non è configurabile un diverso rapporto di lavoro. È diretta ad offrire una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro che si svolgono negli ambiti familiari e che non sono riconducibili allo schema classico del rapporto di lavoro subordinato o autonomo.
Per potersi parlare di impresa familiare devono sussistere i seguenti presupposti:
- costituzione dell’impresa in capo ad un solo soggetto (ad esempio, il coniuge, il genitore) o anche ad entrambi i coniugi;
- i partecipanti coniugi, familiari, conviventi;
- svolgimento da parte del familiare di un’attività di lavoro continuativa;
- accrescimento della produttività dell’impresa conseguente al lavoro del partecipante.
L’impresa può essere:
- coniugale se gestita dai coniugi in comunione dei beni ed essere di tutti e due o di uno solo dei coniugi;
- individuale se di uno dei coniugi. È impresa familiare quando ad essa collaborano l’altro coniuge o i familiari, che però non partecipano alla sua gestione.
Per la costituzione di un’impresa familiare non è necessario un contratto ma può avvenire anche tacitamente con comportamenti concludenti ossia con lo svolgimento dell’attività.
Tale forma di impresa non deve avere una dimensione prestabilita (può essere piccola, media o grande) e può avere come oggetto un’attività industriale, commerciale o agricola (è vietato l’esercizio di attività bancaria o assicurativa).
Non si parla di impresa familiare in caso di lavoro prestato occasionalmente dai familiari conviventi con l’imprenditore: in questo caso, l’attività lavorativa è eseguita spontaneamente o per adempiere a doveri familiari (ad esempio, doveri reciproci tra i coniugi, dei genitori verso i figli e viceversa, obbligo agli alimenti) e trova il proprio fondamento nel rapporto affettivo e di solidarietà che lega i membri della famiglia, in virtù di un’obbligazione “morale” ed “affettiva”, al di fuori di qualsiasi vincolo giuridico.
Si deve però trattare di un aiuto occasionale, non integrante comportamenti di tipo abituale e prevalente nell’ambito della gestione e del funzionamento dell’impresa. Il limite quantitativo temporale massimo del lavoro occasionale prestato dal familiare è di 90 giorni (720 ore) nel corso dell’anno solare.
Il lavoro occasionale dei familiari è gratuito per cui non va retribuito e non sono dovuti i contributi all’Inps.
Costituzione impresa familiare fra conviventi
La legge 76/2016 ha regolamentato le unioni civili e le convivenze di fatto ed ha introdotto nel codice civile l’articolo 230 ter che prevede la costituzione di una impresa familiare fra conviventi. Alla luce di ciò, con quale documento è possibile attestare l’ufficialità della convivenza ai fini della costituzione di una impresa familiare ? Inoltre, per lo svolgimento di una attività di carattere commerciale o artigianale, il convivente di fatto non è obbligato all’iscrizione previdenziale Inps artigiani/commercianti? In caso affermativo, solo la quota di reddito imputata al titolare verrebbe assoggettata a Inps?
La legge 76/2016 ha introdotto una regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze di fatto, definendo le prime come una specifica formazione sociale a rilevanza costituzionale (artt. 2 e 3 della Costituzione) costituite da due persone maggiorenni dello stesso sesso mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni, le seconde come una unione stabile tra due persone maggiorenni, legate da vincoli affettivi e di assistenza reciproca. Mentre per l’unione civile la legge dispone una completa equiparazione con il rapporto di coniugio, la nuova normativa non adotta la medesima equiparazione per i conviventi di fatto, pur estendendo ad essi alcune espresse tutele riservate al coniuge. Ne segue che, sotto il profilo previdenziale, alle unioni civili si estende la regola secondo cui la assicurazione previdenziale prevista per il titolare artigiano o commerciante si estende al coniuge in qualità di familiare coadiuvante. Non si estende invece al convivente di fatto il quale, non essendo – come si è detto – equiparato al coniuge, neanche possiede lo status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare. Discorso analogo vale per la impresa familiare. Mentre al soggetto unito civilmente si applicano, in quanto equiparato al coniuge, tutti i diritti ed obblighi previsti dalle norme civilistiche in materia di impresa familiare (articoli 230 e ss.) analoga applicazione non interessa il convivente di fatto. Infatti, nonostante il nuovo articolo 230 ter attribuisca a quest’ultimo, ove presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente, il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, tale disposizione non può essere letta come una equiparazione allo status di familiare.
La situazione patrimoniale tra conviventi di fatto, infine, viene solitamente regolata con appositi contratti di convivenza, redatti con atto pubblico o scrittura privata autenticata.
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