Se chiude l’azienda, bisogna continuare a pagare l’affitto?
Cessazione della locazione per chiusura attività: la cessazione dell’attività d’impresa non è una giusta causa per interrompere il pagamento dei canoni.
Ipotizziamo il caso di un imprenditore che eserciti la propria attività all’interno di un magazzino preso in affitto. Prima che il contratto di locazione commerciale scada, l’uomo decide di chiudere la sede: gli affari vanno male, i costi superano i ricavi, la concorrenza è forte e probabilmente anche il luogo in cui è situato il negozio è penalizzante. In più è stanco e ha deciso di farla finita con il commercio.
Si pone però il problema del rapporto con il locatore: può dare disdetta anticipata del contratto, deve fornire il preavviso, potrebbe il proprietario del locale chiedere il pagamento dei canoni fino alla naturale scadenza della locazione? La questione è molto delicata perché, come si vedrà a breve, la legge non è chiara: nessuna norma infatti si occupa di spiegare se, con la chiusura dell’azienda bisogna continuare a pagare l’affitto. Tutto quindi è rimesso all’interpretazione del giudice che, tuttavia, potrà seguire alcune linee guida tracciate, in questi ultimi anni, dalla Cassazione.
Proprio di recente la Suprema Corte si è trovata a decidere una controversia simile. Una ditta aveva deciso di cessare ogni attività che svolgeva in una delle proprie sedi, inviando così la lettera di recesso dalla locazione al titolare del locale. La lettera però era generica: la motivazione addotta dal conduttore era semplicemente «chiusura locali». Il locatore non ha inteso aderire alla richiesta di risoluzione anticipata del contratto esigendo pertanto il pagamento dei canoni residui fino alla successiva scadenza del contratto stesso.
La lite è finta dinanzi al Tribunale, poi in Corte d’Appello e, di lì, fino in Cassazione. La domanda fatta ai giudici supremi è stata la seguente: se chiude l’azienda, bisogna pagare l’affitto? Ecco quali sono i principi che vengono applicati in ipotesi del genere.
Quando si può disdire il contratto di affitto
Tanto per la locazione a uso abitativo, quanto per quella a uso commerciale, il contratto va rispettato fino alla scadenza. Scadenza i cui termini minimi vengono indicati dalla legge.
Esistono però due casi in cui il conduttore (non anche il locatore) può dare disdetta anticipata dell’affitto:
- per i motivi eventualmente pattuiti dalle parti e inseriti in modo esplicito nel contatto. Si tratta di concessioni che il locatore, nella redazione del contratto, ha inteso fare al conduttore, consentendogli – al ricorrere di tali specifiche ipotesi – di sciogliersi dall’impegno prima dello scadere del termine;
- oppure per grave motivo sopravvenuto, imprevedibile e oggettivamente gravoso.
In entrambi i casi è comunque dovuto il preavviso di sei mesi: preavviso durante il quale il canone va comunque integralmente versato, anche in caso di abbandono del locale e riconsegna delle chiavi al locatore. Solo un accordo scritto con quest’ultimo potrebbe esonerare il conduttore dal pagamento anche del preavviso.
Cosa si intende per “grave motivo” di recesso dall’affitto?
Il punto sul quale dobbiamo focalizzarci è se il «grave motivo» che la legge 392/78 menziona come causa di risoluzione anticipata dell’affitto possa anche essere la chiusura dell’azienda. Chiaramente, se sussiste tale ipotesi, si prescinde dalla volontà del locatore di risolvere consensualmente il contratto: il recesso è un diritto del conduttore che può essere esercitato indipendentemente dall’accordo tra le parti.
Secondo giurisprudenza costante, il grave motivo deve essere un fatto:
- sopravvenuto rispetto alla conclusione del contratto: deve cioè essere un fatto che non sussisteva già quando è stato firmato l’affitto;
- non prevedibile al momento della conclusione del contratto: il conduttore non doveva essere in grado di anticipare il verificarsi di tale ipotesi;
- non dipendente dalla volontà del conduttore;
- tale da rendere la prosecuzione del contratto troppo gravosa per il conduttore.
Con parole più tecniche, la Cassazione dice: deve quindi trattarsi di circostanze imprevedibili, che esulano dalla volontà del conduttore eppure non gli permettono di restare nei locali e quindi di onorare il contratto. Insomma: la gravosità della prosecuzione deve avere una connotazione oggettiva e non può risolversi in una valutazione unilaterale effettuata dal conduttore rispetto alla convenienza o meno di continuare il rapporto di locazione. Di più. La circostanza deve essere non soltanto tale da eccedere l’ambito della normale alea contrattuale, ma anche consistere in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie, che risulta tale da incidere in modo significativo sull’andamento dell’azienda sul piano globale.
La chiusura dell’azienda è un grave motivo per risolvere il contratto di affitto?
Per stabilire se la chiusura dell’azienda possa rientrare tra i gravi motivi al ricorrere dei quali è ammessa la risoluzione anticipata dell’affitto bisogna innanzitutto investigare sulle ragioni sottese a tale decisione. Se infatti si tratta di una semplice valutazione di opportunità, fatta dall’affittuario perché magari preferisce aprire presso un’altra sede o trovare un locale economicamente più conveniente, non è ammessa la disdetta anticipata e il canone andrà pagato fino alla scadenza naturale del contratto. E ciò perché l’interruzione dell’attività è riconducibile alla volontà del conduttore. Stesso discorso nel caso in cui questi decida di interrompere l’impresa perché ormai stanco e desideroso di andare in pensione.
Se invece l’azienda chiude per causa di una grave crisi, con una forte contrazione dei ricavi che non consenta di far fronte alle spese fisse (personale, fornitori, lo stesso affitto), allora siamo nell’ambito della grave motivo: la chiusura della sede allora comporta il diritto di dare disdetta anticipata dell’affitto, fatto salvo solo il preavviso.
Ma attenzione: secondo la Cassazione è necessario che la lettera di disdetta sia chiara nell’enucleare i motivi della cessazione del contratto. Non si può cioè genericamente comunicare al locatore “chiusura locali”. Una soluzione del genere non consentirebbe a quest’ultimo il controllo della veridicità delle affermazioni della controparte.
È vero: da nessuna parte la legge dice che il conduttore debba fornire prova dei motivi che lo portano al recesso anticipato, ma ragionando in questo modo qualsiasi scusa personale potrebbe essere camuffata per “grave motivo” se poi non si debba dare dimostrazione della sua stessa sussistenza.
Il punto è che nel momento in cui il conduttore afferma di voler recedere per cessazione dell’attività nei locali sottende una motivazione che non spiega la ragione che la giustifica. E dunque impedisce al giudice di ricondurre il contenuto della comunicazione a una ragione apprezzabile come idonea a determinare l’interruzione dell’impegno al rispetto delle obbligazioni previste dal contratto.
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