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Quando sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia?

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(@mariano-acquaviva)
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La legge punisce gli abusi psicologici ai danni del convivente? Chi può sporgere denuncia alla polizia? Qual è la pena prevista per i maltrattamenti?

Maltrattare un familiare, anche solo verbalmente, è un reato punito con la reclusione fino a sette anni. La legge, infatti, sanziona severamente chi, approfittando della vicinanza con la vittima, ne approfitta per abusare di lei; e ciò, anche se le vessazioni sono solamente psicologiche. Quando sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia?

Come vedremo nel prosieguo, questo tipo di reato può essere commesso anche da chi non utilizza la violenza fisica, limitandosi (per modo di dire) a insulti, offese e minacce. In effetti, mentre una singola ingiuria non costituisce reato, più offese dirette costantemente nei riguardi della stessa persona possono integrare il delitto di cui ci stiamo occupando. Quando sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia? Scopriamolo insieme.

Maltrattamenti: cosa sono?

La legge non fornisce una definizione precisa di maltrattamenti, limitandosi solamente a dire che sono puniti quelli commessi nei confronti di un familiare o di un convivente. Ma cosa sono i maltrattamenti?

Per “maltrattamenti” si intendono gli abusi, sia fisici che psicologici, reiterati nel tempo, che causano alla vittima un’apprezzabile sofferenza fisica o morale.

Insomma: sono maltrattamenti tutte le vessazioni nei confronti di una persona, consistenti non solo in percosse ma anche in ingiurie e in ogni tipo di condotta volta a umiliare la vittima.

Dunque, costituiscono maltrattamenti schiaffi, calci, percosse varie, commenti oltraggiosi, privazioni forzate (la vittima costretta a digiunare, ad esempio) e mortificazioni di ogni tipo (si pensi alla moglie costretta a tollerare in casa la presenza dell’amante del marito).

Elemento fondamentale è che la condotta sia ripetuta nel tempo: un solo episodio di violenza (fisica o morale che sia) non è sufficiente per potersi parlare di maltrattamenti, essendo necessario che la condotta sia abituale.

Una sola condotta colpevole non basta. Ad esempio, il padre che percuote il figlio in preda a un improvviso e occasionale stato d’ira rischia di essere incriminato per percosse o per lesioni personali, ma non per maltrattamenti.

Maltrattamenti in famiglia: quando c’è reato?

Perché i maltrattamenti costituiscano reato occorre che la vittima sia un convivente. In questa nozione rientrano non solo i familiari e i parenti in senso stretto, ma anche coloro che vivono sotto lo stesso tetto: è il caso della domestica costretta a subire le prepotenze del padrone di casa.

La Cassazione [1] ha tuttavia più volte ribadito che sussiste il reato di maltrattamenti anche quando la convivenza è cessata, se le vessazioni affondano le radici nella precedente vita di coppia.

Si pensi all’ex marito che, con la scusa delle visite ai figli affidati alla madre, non perda occasione di insultare e di mortificare la donna davanti alla prole.

Per i giudici [2], se la relazione è cominciata da poco e la coabitazione è saltuaria, allora è difficile qualificare i soprusi dell’uomo verso la compagna come maltrattamenti.

Le caratteristiche dei maltrattamenti in famiglia sono dunque tre:

  • l’idoneità della condotta a provocare dolore, anche solo morale;
  • la reiterazione. Una sola azione offensiva non sarebbe sufficiente. Si dice infatti che il reato di maltrattamenti è abituale, cioè deve necessariamente essere ripetuto nel tempo;
  • la convivenza di vittima e responsabile, anche se poi successivamente cessata.

Maltrattamenti: c’è reato anche senza convivenza?

Come ricordato nel precedente paragrafo, la convivenza è elemento fondamentale perché sussista il reato di maltrattamenti; ci sono tuttavia dei casi in cui tale requisito non è previsto dalla legge.

Secondo il Codice penale [3], scatta il delitto di maltrattamenti quando la condotta offensiva è posta in essere nei confronti di una persona affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, per l’esercizio di una professione o di un’arte. È il caso, ad esempio, degli alunni in una scuola, dei pazienti in un ospedale, degli anziani in una casa di riposo.

In queste ipotesi, più che la coabitazione in senso stretto rileva quella sorta di soggezione che lega la vittima al carnefice e che impedisce alla prima di difendersi come vorrebbe.

Ad esempio, l’istruttore di scuola calcio che, abusando della sua posizione di “superiorità”, abusa e maltratta i bambini che gli sono affidati, risponderà del reato di maltrattamenti anche se non c’è una vera convivenza, ma sussiste quel legame che mette in una posizione di inferiorità la vittima.

Maltrattamenti: come sono puniti?

Il reato di maltrattamenti è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità, ovvero se il fatto è commesso con armi.

Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

Maltrattamenti: serve la querela?

Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi è procedibile d’ufficio. Ciò significa che chiunque può sporgere denuncia alle forze dell’ordine, anche persona totalmente estranea alle violenze e al nucleo familiare.

Ad esempio, se il vicino di casa si accorge che dall’appartamento accanto provengono urla disperate, potrebbe egli stesso segnalare il fatto alle autorità.

Di conseguenza, per segnalare i maltrattamenti non occorre necessariamente la querela della persona offesa, sporta nel termine di tre mesi dalla commissione del crimine.

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Pubblicato : 20 Novembre 2022 19:00