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Quando il datore può essere condannato per vessazioni?

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(@angelo-greco)
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Può un capo essere condannato per mobbing, stalking, offese diffamanti verso un dipendente fragile?

Se, da un lato, il dipendente deve obbedienza e rispetto al proprio datore di lavoro, quest’ultimo non se ne può approfittare. Il suo potere direttivo e disciplinare incontra, da un lato, il limite del rispetto della dignità umana; dall’altro, non può estendersi alla sfera extra lavorativa. Anzi, la legge attribuisce all’imprenditore una funzione di vero e proprio garante della salute dei lavoratori. Ecco perché, nel momento in cui ci si chiede quando il datore può essere condannato per vessazioni, il campionario delle ipotesi è assai ampio e vasto.

Una recente sentenza della Corte d’Appello di Catania ha ribadito un principio fondamentale: un capo che umilia un sottoposto non può sottrarsi alla responsabilità civile e penale per le sue condotte. Condotte dalle quali scaturisce altresì l’obbligo di risarcire i danni psicologici, morali e professionali alla vittima: anche se quest’ultima ha una personalità fragile e delicata.

Quando si può denunciare il datore di lavoro per vessazioni e mobbing?

Non esiste un reato di “vessazioni” ma piuttosto quello di maltrattamenti.

I maltrattamenti sono quelli che si consumano nei piccoli ambienti aziendali, dove il datore o il superiore gerarchico è a stretto contatto con la vittima e infierisce su questa con atteggiamenti prevaricatori, ossessivi, mortificanti.

Il delitto di maltrattamenti richiede una condotta reiterata nel tempo, volta a creare un danno psicologico o addirittura fisico nel soggetto passivo.

Sotto l’aspetto civilistico i maltrattamenti si accompagnano spesso al mobbing. Il mobbing è un termine usato per descrivere una forma di vessazione o di abuso psicologico sul posto di lavoro, caratterizzata da comportamenti ostili e ripetuti nel tempo da parte di uno o più soggetti nei confronti di un dipendente. Tali comportamenti possono includere umiliazioni, isolamento, critiche continue e ingiustificate, sovraccarico di lavoro o assegnazione di compiti inutili o degradanti, emarginazione, demansionamento, fino a vere e proprie intimidazioni verbali.

Comportamenti come il fatto di impedire al dipendente di svolgere le sue mansioni, sottrargli strumenti di lavoro essenziali come chiavi e computer, e denigrarlo davanti a colleghi e clienti, sono considerati dalla giurisprudenza come forme di vessazione e quindi di mobbing.

L’obiettivo di chi mette in atto il mobbing è spesso quello di demoralizzare la vittima, metterne in discussione le competenze professionali, isolarla socialmente e lavorativamente o, in casi estremi, indurla a lasciare volontariamente il lavoro.

Il mobbing può avere gravi conseguenze sulla salute psicofisica della vittima, portando a disturbi come ansia, depressione e stress post-traumatico.

La caratteristica del mobbing è costituita dall’unitarietà dello scopo che accomuna tutti i comportamenti del datore di lavoro: comportamenti che, singolarmente presi possono anche essere leciti (ad esempio il rifiuto di ferie in un determinato periodo dell’anno) ma che nel loro complesso rivelano un disegno vessatorio. Ed è proprio questo l’aspetto più difficoltoso: la prova di tale intento soggettivo (il cosiddetto elemento psicologico del datore di lavoro) deve essere fornita dal dipendente.

In assenza di tale prova però, dinanzi comunque alla dimostrazione di un ambiente lavorativo tossico, stressante e dannoso, il dipendente può comunque ottenere il risarcimento. In questo caso infatti, al posto del mobbing, si parla di straining che è comunque un illecito ma più facilmente dimostrabile.

Quali sono i rapporti tra mobbing e maltrattamenti?

Il mobbing è un illecito civile e, in presenza di un danno psicofisico e/o alla carriera (che spetta al dipendente dimostrare) dà diritto al risarcimento.

Lo stesso dicasi per quanto riguarda lo straining.

I maltrattamenti invece costituiscono un reato: il comportamento richiesto è sempre lo stesso, ma esso può integrarsi solo nei piccoli ambienti di lavoro, dove il datore è a stretto e giornaliero contatto con la vittima.

Diffamazione sul lavoro

Il datore che prende in giro il dipendente e, in sua assenza, ne parla male con i colleghi, gli altri dipendenti, i superiori o i clienti commette il reato di diffamazione.

Per la diffamazione è necessario che la vittima non possa sentire le affermazioni del datore, venendone a conoscenza in altro modo (testimonianze di terzi).

Invece le offese fatte “a tu per tu” non integrano alcun reato: l’ingiuria infatti non è un reato ma un semplice illecito civile. Tuttavia essa può contribuire a corroborare la prova del mobbing che si sostanzia anche in atti ostili.

Stalking sul lavoro

La sentenza in commento ha evidenziato che il datore di lavoro può essere condannati anche per stalking. Questo si verifica quando, con atti persecutori reiterati, minacce e violenze, il datore crea uno stato di ansia o di paura nella vittima, oppure la spinge a cambiare le proprie abitudini di vita.

Anche lo stalking è un reato che può consentire di ottenere il risarcimento del danno.

Chi è responsabile in caso di vessazioni sul lavoro?

Delle vessazioni commesse ai danni di un lavoratore risponde sempre il datore di lavoro, anche se le condotte sono state poste in essere da colleghi o superiori e sempre che egli ne sia stato informato. Difatti, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, il datore è tenuto a garantire la salute psichica e fisica dei suoi dipendenti.

Dunque, se un superiore maltratta un dipendente l’imprenditore deve risarcire il danno da quest’ultimo causato. Questo vale anche se il dipendente ha una predisposizione alla fragilità psicologica. Il principio alla base è che nessuno può giustificarsi per aver causato sofferenza ad altri, sostenendo che la vittima era già vulnerabile. E tanto vale anche nel caso in cui il datore non fosse a conoscenza di tale situazione di debolezza psicologica.

Laddove le condotte tenute dal superiore gerarchico rivestano un sicuro rilievo penale, sia sotto il profilo dell’offesa dell’altrui reputazione, sia in relazione agli atti persecutori, come nel caso di condotte reiterate di minaccia e molestia, l’autore di tali condotte deve sempre essere condannato a risarcire la vittima. Tale obbligo sussiste anche nel caso in cui il comportamento illecito sia stato concausa (e non causa esclusiva) del danno. L’importante è che sussista un rapporto di causa-effetto tra il disturbo dell’adattamento con ansia del dipendente e i comportamenti del superiore gerarchico. Chi pone in essere un comportamento intenzionalmente lesivo dell’altrui persona non può poi esimersi da responsabilità invocando le fragilità psichiche della vittima, anche quando abbiano concorso alla causazione del danno.

Cosa dice la legge sul risarcimento del danno per le vessazioni sul lavoro?

Alla vittima spetta il risarcimento del:

  • danno patrimoniale: quello cioè alla carriera che viene interrotta dalle condotte vessatorie;
  • danno morale: quello conseguente alla sofferenza psicologica;
  • danno biologico: quello conseguente ai disturbi psicofisici che siano derivati dalle vessazioni.
 
Pubblicato : 8 Febbraio 2024 06:00