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Quando i familiari del danneggiato hanno diritto al risarcimento

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(@angelo-greco)
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Danno biologico riconosciuto anche ai parenti del danneggiato costretti ad assisterlo.

In un contesto giuridico in continua evoluzione, una recente sentenza emessa dalla terza sezione civile del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (sent. n. 104 dell’11 gennaio 2024) pone un nuovo punto di riferimento nella valutazione del danno biologico. La decisione riconosce il diritto al risarcimento non solo alla vittima diretta di un incidente stradale, ma anche ai familiari stretti, quali i figli, che si trovano a vivere le conseguenze del trauma subìto dal congiunto. Una tutela che viene estesa in ragione del pregiudizio anche di natura pratica e logistica, conseguente all’assistenza fisica che bisogna prestare alla vittima. Vediamo, più nel dettaglio, quando i familiari del danneggiato hanno diritto al risarcimento.

Il caso in esame riguarda un trentenne, già alle prese con una grave malattia, costretto ad assistere il padre, unico convivente, investito da un’auto pirata. Nonostante le precarie condizioni di salute, il giovane si è trovato a garantire l’assistenza necessaria durante la lunga convalescenza del genitore, subendo a sua volta un danno biologico psichico valutato al 3%, anche seguito del trauma emotivo e del radicale cambiamento nelle proprie abitudini di vita.

Il tribunale ha riconosciuto il risarcimento del danno subito dal figlio, liquidato in quasi 4.700 euro, seguendo le tabelle per le lesioni micropermanenti. Tale decisione si fonda sulla constatazione che l’incidente non ha solo causato un pregiudizio fisico al genitore ma ha rappresentato un evento con ripercussioni dirette anche sul nucleo familiare più stretto.

Non è la prima volta che la giurisprudenza riconosce il risarcimento ai parenti della vittima. Un caso emblematico è quello dell’infortunio che abbia colpito la casalinga o comunque la donna che, seppur con un lavoro a tempo parziale, si dedicava al ménage domestico. La necessità, in tale ipotesi, di ricorrere a un sostegno esterno, come una colf o una baby-sitter, configura un danno patrimoniale risarcibile nella misura della spesa sostenuta.

Tuttavia, spiega la Cassazione (sent. n. 6477/2017), va sempre fornita la prova del danno. In un regime di normale convivenza, sia essa fondata sul matrimonio o meno, spetta il risarcimento del danno patrimoniale in caso di perdita del congiunto o convivente:  l’apporto economicamente apprezzabile alla gestione familiare, sotto forma di lavoro domestico e di organizzazione della vita familiare, si può infatti presumere – e quindi non necessita di apposita prova – qualora il convivente si dedichi esclusivamente alla cura della casa. Nel caso invece in cui questi svolga un’attività lavorativa esterna, il danno non può reputarsi automatico e già dimostrato nella circostanza dell’incidente, ma è necessario che sia fornita la prova, che il convivente, oltre ad essere impegnato in una attività lavorativa esterna, dedicasse parte delle sue energie residue, in modo significativo ed economicamente apprezzabile tanto da costituire una possibile posta di danno per equivalente, alla cura della casa».

Non solo. La giurisprudenza riconosce anche il risarcimento del danno morale conseguente alla sofferenza che un familiare, non necessariamente convivente, subisce quando un proprio caro muore o riporta un danno significativo che ne compromette le abitudini di vita (è il cosiddetto danno da perdita del rapporto parentale). Ad esempio, è stato riconosciuto il risarcimento al nipote particolarmente legato al nonno morto a seguito di investimento. Anche in questo caso, non è di per sé il legame di parentela a fare la differenza ma la sofferenza dimostrata dal forte attaccamento emotivo e dal contatto quasi quotidiano tra le parti.

Sul punto citiamo una importante sentenza della Cassazione (n. 31867/2023): «In tema di risarcimento del danno da lesione o perdita del rapporto parentale, in caso di assenza del rapporto di parentela, non è sufficiente l’allegazione della mera convivenza, ma è necessaria la prova della lesione di un legame affettivo». In applicazione del principio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di secondo grado che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno parentale proposta dal convivente della madre del deceduto, il quale si era limitato a dichiararsi convivente della vittima senza nemmeno addurre l’esistenza di una relazione affettiva, la cui lesione potesse ritenersi fonte di pregiudizio non patrimoniale.

Inoltre, il risarcimento non spetta unicamente a chi è legato da rapporti di consanguineità ma anche ai conviventi o ai promessi sposi.

Questa sentenza mette in luce l’importanza della qualità e della prossimità dei legami affettivi nella valutazione del danno, sottolineando come la prova di tale pregiudizio possa essere fornita anche per presunzioni, senza cioè la necessità di una prova vera e propria (le presunzioni sono ciò che comunemente viene chiamato “indizi”).

Elementi come la convivenza, l’età delle parti, la sopravvivenza di altri parenti e le circostanze specifiche del caso contribuiscono a definire l’entità del danno e il diritto al risarcimento.

Il caso analizzato sottolinea tuttavia un elemento importante: affinché si possa richiedere il risarcimento del danno biologico per le lesioni riportate da un parente è necessario dimostrare che tale pregiudizio fisico (quello che appunto giustifica la richiesta del danno biologico) sia diretta e immediata conseguenza dell’illecito, del fatto cioè che ha determinato la lesione al proprio caro (nel nostro caso l’incidente).

Ad esempio, una persona che riporti una sindrome da stress deve fornire la prova che questa discenda dalla sofferenza di vedere il proprio genitore su una sedia a rotelle e dalla necessità di assisterlo, non già magari da altri fattori come potrebbe essere un ambiente di lavoro tossico e una sindrome di burnout.

 
Pubblicato : 29 Febbraio 2024 14:30