Qual è lo stipendio minimo per vivere?
Che fare se lo stipendio è insufficiente per vivere? Quando il contratto collettivo prevede una paga ridicola è possibile ottenere un adeguamento dal tribunale.
Alla domanda «qual è lo stipendio minimo per vivere» ogni buon consulente finanziario non potrà dare una risposta netta: tutto dipende dal contesto economico in cui si vive, dall’età, dalle condizioni di salute, dalle persone a carico, dalla posizione sociale, dal tenore di vita a cui si è abituati e soprattutto dalla “resilienza” del lavoratore. C’è chi è in grado di andare avanti con pensioni di 600 euro al mese e chi non riesce a farsi bastare il triplo.
Da un punto di vista legale, però, esistono “minimi salariali” sotto i quali il datore di lavoro non può mai scendere. Vengono chiamati “minimi sindacali” perché sono il frutto degli accordi conclusi dai rappresentati dei lavoratori e dei datori di lavoro, accordi che poi confluiscono nei cosiddetti CCNL (ossia i contratti collettivi di categoria).
Ebbene, che fare se lo stipendio previsto dal contratto di lavoro è insufficiente per vivere? Come ci si deve regolare quando la paga base non consente di arrivare a fine mese?
La nostra legge non prevede ancora il salario minimo (adottato invece da numerosi Stati europei). E ciò perché la nostra normativa si è sempre affidata agli accordi sindacali di cui abbiamo appena parlato. È in questi che viene stabilito appunto lo stipendio minimo per vivere. Se il datore di lavoro dovesse pagare meno di tali importi, il dipendente potrebbe fargli causa, agendo in tribunale fino a cinque anni dalla cessazione del rapporto di lavoro e pretendendo tutti gli arretrati, senza che vi sia il rischio di vedersi eccepire la prescrizione.
Ciò però che in pochi ancora sanno è che, quando il contratto collettivo nazionale prevede una paga ridicola, insufficiente per la sopravvivenza, è possibile fare ricorso al giudice e chiedere un adeguamento al costo della vita.
Su questo tema si è di recente espressa la Cassazione con due importantissime sentenze: la n. 28320/2023 e alla n. 27711/2023.
Sull’esempio della Suprema Corte si stanno muovendo ora anche tutti gli altri tribunali. Di recente il giudice del lavoro di Bari (sent. n. 2720/2023) ha emesso una pronuncia molto simile a quelle appena enunciate. Cerchiamo di chiarire meglio la situazione.
La paga prevista dal contratto di lavoro è inderogabile?
Con la sentenza n. 2720/2023 del 13 ottobre 2023, il Tribunale di Bari ha ribadito un principio molto importante: la paga base prevista dal CCNL – il cosiddetto “minimo sindacale” – può essere oggetto di vaglio da parte del giudice. Non è cioè intangibile solo perché concordata dalle parti sociali. Se infatti l’importo previsto per lo stipendio del lavoratore non consente la sopravvivenza il giudice può ritoccarlo ordinando al datore di lavoro di versare la differenza.
Questo perché il giudice deve applicare, prima ancora del contratto collettivo, l’articolo 36 della Costituzione in forza del quale «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
Nel caso preso in esame, un lavoratore lamentava una retribuzione non adeguata, basandosi su un Ccnl specifico.
Ebbene, secondo la Cassazione non può escludersi che il trattamento retributivo fissato dalla contrattazione collettiva possa risultare in concreto lesivo del principio di «proporzionalità» del corrispettivo alla quantità e qualità del lavoro prestato e/o di «sufficienza ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
Ma un CCNL può andare contro la Costituzione?
Sicuramente un CCNL, seppure è il frutto di un accordo tra le parti sociali, non può mai prevedere una regola contraria alla Costituzione. Sarebbe ad esempio illegittimo un contratto collettivo che riduca il numero di ferie o di giorni di riposo settimanale del lavoratore. Lo stesso concetto deve quindi valere anche per la retribuzione: se il “minimo sindacale” previsto nel CCNL è insufficiente «ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa», così come vuole la Costituzione, allora il giudice ben può – anzi deve – disapplicarlo e adeguarlo al costo effettivo della vita.
In sintesi – afferma la giurisprudenza – anche se un accordo è stato raggiunto tra le parti sociali, se questo viola i diritti costituzionali, può essere messo in discussione.
Quali criteri stabiliscono un “salario giusto”?
L’aspetto più delicato è stabilire, in assenza di una specifica norma di legge, fin dove il giudice può spingersi nell’adeguare lo stipendio del dipendente. Attribuirgli un eccessivo margine di discrezionalità significherebbe ledere gli interessi del datore di lavoro. Il quale non ha fatto altro che rispettare la contrattazione collettiva, applicando in buona fede quanto previsto dal CCNL. Egli sarebbe quindi esposto al rischio di una condanna giudiziale e del considerevole aumento dei costi del personale.
Ebbene, secondo la giurisprudenza, ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale bisogna prendere a riferimento l’importo della retribuzione prevista per mansioni analoghe da contratti collettivi di settori affini e il tasso soglia di povertà assoluta.
Inoltre bisogna considerare, quale soglia al di sotto della quale non si può mai scendere, il tasso Istat di povertà assoluta (nel caso di specie si è fatto riferimento alla soglia di reddito Isee per l’accesso all’ormai abrogato reddito di cittadinanza).
Cosa significa tutto ciò per il lavoratore?
Significa che, nonostante ciò che stabilisce un Ccnl, la legge italiana, basandosi sulla Costituzione, interviene per proteggere il lavoratore. Nel caso specifico, la retribuzione del lavoratore era inferiore ai minimi stabiliti da altri contratti per mansioni analoghe e sotto la soglia di povertà. Di conseguenza, il Tribunale ha dichiarato che la sua retribuzione era inadeguata.
Come può un lavoratore assicurarsi di ricevere una retribuzione equa?
Se un lavoratore ritiene che la sua retribuzione non sia adeguata, può ricorrere in giudizio, come ha fatto il ricorrente in questo caso. Deve cioè fare causa al datore di lavoro e, come anticipato in apertura, il giudizio può essere avviato anche una volta che il rapporto di lavoro è cessato (per dimissioni o licenziamento) entro i successivi cinque anni.
In sintesi
Il lavoratore ha diritto ad un salario minimo che lo tenga fuori dalla condizione di povertà e che, secondo quanto previsto dall’articolo 36 della Costituzione, sia proporzionato e adeguato ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
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