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Qual è il prezzo giusto per vendere casa?

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Si può vendere una casa al prezzo che si vuole? Una cessione a un costo simbolico può comportare dei rischi?

Non è facile districarsi tra le numerose norme di legge che sorgono nel momento in cui si decide di vendere casa. Ci sono gli aspetti contrattuali da curare, i rapporti con l’eventuale agenzia immobiliare e, soprattutto, le questioni di carattere fiscale. Sono proprio queste ultime che preoccupano, più di tutto, le parti. E non c’è di che meravigliarsi: non poche volte l’Agenzia delle Entrate esegue accertamenti sul prezzo di vendita dichiarato nel rogito notarile. Questo perché non è raro incappare in una simulazione volta a evadere le tasse sull’atto di acquisto (imposta di registro e Iva in primo luogo). Ti sarai allora chiesto qual è il prezzo giusto per vendere casa? Si può vendere un immobile al prezzo che si vuole o la vendita a un prezzo simbolico deve ritenersi illegittima?

Cosa si rischia a vendere una casa a un prezzo troppo basso?

La legge non fissa un prezzo minimo per la vendita di una casa. Acquirente e venditore sono liberi di scegliere il corrispettivo secondo trattative private. Non c’è un listino da rispettare.

In teoria, è quindi possibile vendere una casa a un prezzo molto superiore o molto inferiore rispetto a quello che il mercato pratica nella stessa zona.

Ma se le vendite a un prezzo più alto rispetto alla concorrenza non destano alcun problema, quelle invece a prezzo simbolico o comunque stracciato appaiono sospette. Questo perché più è basso il prezzo di vendita, tanto più è inferiore il conto delle tasse da pagare allo Stato al momento della stipula del rogito.

Se si acquista da una ditta di costruzioni, l’acquirente deve versare l’Iva pari al 4% sul valore catastale (10% se è seconda casa). La società venditrice, invece, deve corrispondere le imposte sul reddito prodotto da tale vendita: e tanto più è alto il reddito, tanto maggiore è l’imposta.

Se invece si acquista da privato, il venditore non deve dichiarare alcunché mentre l’acquirente deve versare allo Stato l’imposta di registro pari al 2% (9% se è seconda casa).

Quindi, l’Agenzia delle Entrate controlla i rogiti e verifica quelli a rischio evasione. Lo fa aiutandosi con una serie di indici, primo tra tutti il cosiddetto Osservatorio del mercato immobiliare (Omi), un istituto che fa stime sui valori di mercato degli immobili. Vengono eseguite anche verifiche sul luogo per accertare le condizioni dell’abitazione, lo stato di conservazione del bene, l’eventuale ristrutturazione da eseguire, ecc.

Dunque, tutte le volte in cui il prezzo di vendita risulta molto più basso rispetto al mercato – tanto da far sospettare che la differenza sia stata pagata in nero, ossia non dichiarata nel rogito – l’Agenzia delle Entrate può procedere alla cosiddetta rettifica del valore dell’immobile. In caso di pagamento in nero, non potendo sapere con esattezza quanto è stato pagato dall’acquirente, il Fisco si basa sul «valore venale in comune commercio» determinato appunto dall’Omi e dagli altri criteri che abbiamo appena indicato.

Per valore venale in comune commercio si intende il valore normale di scambio derivante dal mercato, il quale pertanto è destinato ad essere normalmente rappresentato dal prezzo di vendita e non può essere individuato automaticamente nel valore dichiarato dai contraenti.

Così, in caso di accertamento fiscale, l’Agenzia delle Entrate chiede il pagamento delle imposte calcolate sulla base del valore effettivo del bene, a prescindere da quanto dichiarato nell’atto dalle parti.

Quando si rischia un accertamento con rettifica del valore immobiliare?

Questo non obbliga le parti ad attenersi in modo rigido al mercato, ben potendo concordare un prezzo più basso anche del 20% o del 30%. Più è consistente lo sconto, più risulta fondato il sospetto dell’Agenzia delle Entrate. Sospetto difficilmente contestabile se, ad esempio, una casa dovesse essere venduta a meno della metà del suo prezzo naturale.

Per difendersi dall’accertamento immobiliare dell’Agenzia delle Entrate bisognerà munirsi di una controperizia che stimi il valore reale del bene, tenendo conto delle condizioni concrete in cui si trova l’immobile (si pensi a un appartamento vecchio da ristrutturare) o del palazzo in cui è inserito (si pensi a un edificio che necessita di lavori di rifacimento della facciata o del tetto) e, infine, dell’urbanizzazione della zona (si pensi a un quartiere che, nel tempo, si è svalutato).

Approfondimenti

Per maggiori informazioni, leggi:

Vendita a un prezzo irrisorio e problemi con gli eredi

Si potrebbe fingere una vendita solo per evitare che l’eventuale donazione sia contestata dagli eredi legittimari. Come noto, infatti, figli e coniuge hanno diritto a una quota minima di patrimonio ereditario (la cosiddetta legittima): il defunto non può privarli di ciò neanche con donazioni fatte nel corso della propria vita.

Se quest’ultimo dovesse regalare i propri beni ad altri familiari o estranei, i legittimari potrebbero impugnare le suddette donazioni che hanno leso la rispettiva quota a loro riservata dalla legge. La contestazione non è, invece, possibile in caso di vendita (visto che il patrimonio del donante non si svuota ma si modifica).

Simulare una vendita per nascondere una donazione è, quindi, un rischio nei confronti degli eredi. Ma attenzione: gli eredi dovrebbero dimostrare l’intento simulatorio cosa che si potrebbe evincere, ad esempio, dal mancato pagamento del prezzo o dalla restituzione dello stesso prezzo una volta versato al finto venditore.

 
Pubblicato : 21 Aprile 2023 16:51