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Parità di genere: cosa rischia chi non la rispetta?

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(@paolo-remer)
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Come vengono puniti i datori di lavoro che creano diseguaglianze di trattamento tra dipendenti uomini e donne; cosa può fare la lavoratrice colpita da discriminazioni; quali sono i premi per le aziende virtuose.

L’uguaglianza effettiva fra uomini e donne è molto difficile da raggiungere nel mondo del lavoro. Al di là dei principi enunciati nella Costituzione e nelle leggi, le situazioni concrete vedono ancora oggi numerose disparità di trattamento che penalizzano il personale femminile a tutti i livelli: dalla donna manager all’operaia. Il fenomeno è più accentuato nei comparti privati, mentre nel settore pubblico c’è maggiore omogeneità, grazie al fatto che i concorsi di accesso non sono quasi mai discriminatori e il trattamento retributivo è il medesimo per i dipendenti di entrambi i sessi.

Molte aziende private, invece, grazie al fatto che la contrattazione per l’assunzione dei dipendenti è più libera, compiono numerose sperequazioni che di fatto pongono le donne in una situazione di grave e costante svantaggio rispetto ai loro colleghi uomini: basti pensare alle limitazioni che avvengono nella progressione in carriera, ostacolando le donne in parecchi modi, o al gender pay gap, cioè l’ingiustificata differenza di trattamento retributivo che le penalizza in busta paga. Ultimamente la normativa italiana è stata rafforzata per impedire queste situazioni e per sanzionare in modo efficace chi ne è responsabile: di solito si tratta del datore di lavoro, che non può accampare scuse e pretesti per scaricare la colpa su altri. Vediamo, dunque, cosa rischia chi non rispetta la parità di genere e cosa può fare la lavoratrice che non è disposta a tollerare discriminazioni e penalizzazioni.

Cosa si sta facendo per la parità di genere?

L’art. 37 della Costituzione sancisce che «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». Un principio chiarissimo, ma rimasto inattuato per parecchi decenni.

Nel 2021 il Parlamento ha varato un’importante legge [1] per rafforzare alcune previsioni contenute nel Codice delle Pari Opportunità, risalente al 1996, che erano rimaste lettera morta in molti ambiti lavorativi.

La nuova legge cerca di realizzare una effettiva parità di genere tra uomini e donne, puntando su un meccanismo di premi per le aziende virtuose e di punizioni per quelle che non rispettano gli obblighi.

Cos’è la certificazione della parità di genere?

Tra i meccanismi premiali il più importante, per il suo grande impatto pratico, è l’introduzione della certificazione di parità di genere: un attestato che viene rilasciato alle aziende che dimostrano di aver superato ogni forma di divario tra uomini e donne e di discriminazione di queste ultime sul lavoro.

Per ottenere la certificazione l’azienda deve compilare (e mantenere aggiornato) il rapporto sulla situazione del personale: si tratta di un documento (obbligatorio per le imprese con più di 50 dipendenti e facoltativo per quelle inferiori) analitico, che contiene tutte le misure adottate per impedire le disuguaglianze e discriminazioni di genere. Il rapporto viene redatto a cadenza biennale dal datore di lavoro, con il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali, ed è controllato dal consigliere di parità.

In questo modo possono essere individuate ed eliminate, ad esempio, le differenze retributive esistenti tra lavoratrici e lavoratori, e adottare le misure organizzative opportune per consentire ad esse di conciliare i tempi di vita e di lavoro, in considerazione del loro ruolo di casalinghe, mogli e madri.

I benefici per le aziende che adottano questo modello e ottengono la certificazione di parità di genere (che viene rilasciata da appositi Enti accreditati) consistono in sgravi contributivi e punteggi aggiuntivi riconosciuti all’impresa in caso di partecipazione a gare ed appalti pubblici: è il cosiddetto «premio di parità», previsto nei rispettivi bandi indetti dalle Pubbliche Amministrazioni, e può anche garantire la concessione di finanziamenti pubblici a tassi agevolati.

Quali sono le discriminazioni vietate?

Le nuove norme introdotte nel Codice delle Pari Opportunità [2] intervengono sulla nozione di discriminazione in base al genere sessuale che aveva dato luogo a non pochi problemi agli interpreti per comprendere la reale portata del principio. Adesso la discriminazione vietata non è più soltanto quella determinata dallo stato di gravidanza e di maternità e dalla preclusione ad esercitare i relativi diritti, ma anche ogni trattamento che:

  • pone la lavoratrice in una condizione di svantaggio rispetto ai lavoratori;
  • limita le opportunità della lavoratrice alla partecipazione nelle scelte aziendali;
  • ostacola o preclude l’accesso ai meccanismi di avanzamento di livello e di progressione in carriera.

Discriminazioni delle lavoratrici: cosa fare?

La discriminazione delle lavoratrici è vietata dalla legge, al pari delle discriminazioni nei luoghi di lavoro in base all’età, all’origine etnica, alla lingua, allo stato di salute o di disabilità, alle opinioni politiche ed all’appartenenza sindacale. Rientra, pertanto, nel novero degli «atti discriminatori» considerati illeciti dallo Statuto dei Lavoratori [3], quindi gli atti posti in essere dal datore di lavoro che realizzano una discriminazione delle lavoratrici in qualsiasi forma – ad esempio, con un licenziamento intimato ad una dipendente solo in quanto donna – sono nulli.

Questo significa che la donna vittima di discriminazioni compiute sul luogo di lavoro può agire in via giudiziaria proponendo ricorso al tribunale competente per territorio, in funzione di giudice del Lavoro, per far dichiarare l’illegittimità del comportamento adottato dal datore e tutti i provvedimenti conseguenti, fino al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’illecito. La nozione più ampia ed estesa di discriminazione rispetto al passato consente di reagire a molteplici situazioni, come un trattamento retributivo deteriore della lavoratrice rispetto ai colleghi uomini, la preclusione all’avanzamento di grado, l’ostacolo alla partecipazione ad iniziative aziendali e l’esclusione ingiustificata dalla fruizione di indennità e dalle varie forme di benefit.

È possibile chiedere al giudice del Lavoro anche l’adozione, in via d’urgenza, dei provvedimenti necessari per interrompere la condotta illecita [4], ed esercitare l’azione giudiziaria collettivamente da parte di un gruppo di dipendenti colpite, anche con l’assistenza sindacale ed il supporto del consigliere – aziendale o territoriale – di pari opportunità [5].

La riforma del 2021 ha anche introdotto un’inversione dell’onere probatorio: se le lavoratrici producono in giudizio elementi tali da far ritenere l’esistenza di condotte discriminatorie, esse si presumono sussistenti fino a prova contraria, che dovrà fornire il datore di lavoro per riuscire a dimostrare l’insussistenza di discriminazioni di genere.

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Pubblicato : 8 Novembre 2022 14:30