Palpeggiamenti alla dipendente: quanto vale la parola della vittima?
La Cassazione stabilisce: la testimonianza della vittima in casi di violenza sessuale può bastare per condannare l’imputato, se giudicata attendibile.
Cosa succede quando un superiore abusa del suo potere in azienda, arrivando ad avere comportamenti inappropriati verso una dipendente? Può la sola testimonianza della persona offesa condurre alla condanna del colpevole? Queste domande sono al centro di una recente sentenza della Cassazione che affronta il tema delicato delle avances sui luoghi di lavoro. Ma procediamo con ordine.
Palpeggiamenti: è reato?
Palpeggiare una donna nelle parti erogene è violenza sessuale. La mano sulla natica, sull’interno della coscia, sul seno o anche solo sul petto può portare a una condanna certa.
Cosa può fare la vittima? Può certamente sporgere querela. Ha un anno di tempo per farlo.
Se poi la violenza sessuale avviene nei luoghi di lavoro, la lavoratrice può dimettersi per giusta causa e, per l’effetto ottenere (oltre ovviamente al TFR, alle mensilità e ai ratei già maturati di tredicesima e pensione), anche il risarcimento del danno. Inoltre, rivolgendosi all’Inps, otterrà la Naspi, ossia l’assegno di disoccupazione (essendo le sue dimissioni dovute a cause indipendenti dalla sua volontà). Quanto alle ferie, le dovranno essere liquidate.
Resta fermo che l’eventuale licenziamento dettato dalla mancata accondiscendenza agli approcci del datore è discriminatorio e, pertanto, nullo.
Non si dimentichi che il datore è responsabile anche se le molestie sessuali sono commesse non da lui personalmente ma dai superiori gerarchici della dipendente. In tal caso, però, la sua responsabilità è solo civile e limitata al risarcimento del danno.
Come dimostrare i palpeggiamenti sul lavoro?
La terza sezione civile della Cassazione, nella sentenza 10001/17, ha sottolineato un principio fondamentale: in tema di violenza sessuale, la testimonianza della vittima, se ritenuta credibile e attendibile, può essere sufficiente a stabilire la responsabilità penale dell’imputato, anche senza la necessità di ulteriori riscontri. In parole semplici, se il racconto della vittima viene giudicato coerente e affidabile, può essere preso come base per condannare l’aggressore.
Quando possono ritenersi affidabili le dichiarazioni della dipendente? Ad esempio quando lascia il lavoro: rinunciare a uno stipendio e a un posto sicuro è sicuramente un comportamento che denota una situazione intollerabile (Cass. sent. n. 5436/2017).
A dire il vero si tratta di un principio che riguarda qualsiasi altro reato e quindi, in generale, ogni processo penale. È forse la principale distinzione rispetto al processo civile in cui le parti non sono invece testimoni di sé stesse.
Approfondimenti: Come difendersi dal capo che importuna i dipendenti
Quanto valgono le altrui testimonianze?
In passato la Cassazione ha detto che gli argomenti di prova contro l’imprenditore possono essere dedotti anche dalle dichiarazioni di altre dipendenti che, pur non essendo a conoscenza dei fatti di causa, ammettano di essere state a loro volta vittime del medesimo comportamento. Il che genererebbe una presunzione sul comportamento dell’uomo. Come dire: chi lo fa una volta, ci ricade.
Altre prove
Sempre in tema di avances, la dipendente vittima di tali molestie può ben effettuare registrazioni anche sul luogo di lavoro o nell’ufficio privato del capo: per quanto queste siano di regola vietate, diventano invece lecite quando rivolte a far valere in giudizio un proprio diritto.
Quando si può parlare di “violenza sessuale”?
La Cassazione ha chiarito che si parla di violenza sessuale, e non di mera molestia, quando vi è un “toccamento non casuale dei glutei”, anche al di sopra dei vestiti. Questa definizione distingue la violenza sessuale da comportamenti meno gravi, come commenti verbali o corteggiamenti insistenti, che invece rientrano nella categoria delle molestie.
E se l’imputato nega?
Il giudice deve analizzare con attenzione e rigore la testimonianza della vittima. Se supera un rigoroso esame di attendibilità, il racconto della vittima può essere considerato decisivo per stabilire la responsabilità dell’imputato. In questo caso, il giudice ha respinto le prove presentate dalla difesa (come i tabulati del telepass e del cellulare) che avrebbero dovuto dimostrare l’assenza dell’imputato dal luogo dell’aggressione.
I doveri del datore di lavoro se scopre avances dei superiori
Il datore di lavoro è tenuto a garantire la salute psicofisica dei propri dipendenti. Una tutela che non vale solo nei confronti di rapinatori o macchinari pericolosi ma anche dai superiori che egli stesso ha collocato ai posti apicali. Per cui, se uno dei “capi” importuna una dipendente, va avances o atti di mobbing, questo deve essere rimosso. Rimozione che può arrivare non solo al trasferimento ma anche al licenziamento.
La pacca sul fondoschiena di una collega e il commento sull’avvenenza fisica rivolto ad altra collega, invitata a girarsi sul fianco per mostrare il «sedere giovanile», sono comportamenti contrari alle basilari regole del vivere civile e dell’educazione, integrando gli estremi di una obiettiva offensività. È irrilevante verificare se il lavoratore sia stato mosso da spirito goliardico o se abbia, invece, agito con malizia e concupiscenza, perché la pacca sul sedere e gli apprezzamenti fisici verso le colleghe sono espressioni oggettivamente incompatibili con una corretta dinamica relazionale nel contesto di una realtà professionale.
Né è dirimente indagare il vissuto delle colleghe e verificare la gravità che esse possano aver attribuito ai due episodi, in quanto la volgarità dei gesti ha un oggettivo disvalore sociale e si traduce in un atteggiamento irrispettoso che può minare la serenità dell’ambiente e generare una condizione di turbamento.
La Cassazione raggiunge queste conclusioni osservando che, in una organizzazione aziendale strutturata gerarchicamente, la «pacca sul sedere» e l’apprezzamento sul fondoschiena verso due colleghe subordinate sono un chiaro indice di mancanza di rispetto e feriscono la dignità della persona e la sua stessa professionalità.
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