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Malformazione del bambino: si può abortire?

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(@paolo-remer)
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Quando è consentito interrompere la gravidanza dopo i 90 giorni se il feto presenta mancanza di arti, sindrome di Down o altre patologie invalidanti.

Quando una donna incinta si sottopone ai controlli medici per verificare l’evoluzione della gravidanza e lo stato di salute del feto, possono emergere brutte sorprese, se le ecografie del ginecologo o gli esami diagnostici di laboratorio rivelano patologie e malformazioni fetali di vario genere. A quel punto subentrano gravi preoccupazioni: la prosecuzione della gravidanza potrebbe essere indesiderata e qualcuno vorrebbe interromperla. Ma se si scopre una malformazione del bambino si può abortire tardivamente, cioè oltre il terzo mese?

Per rispondere a questa impegnativa domanda bisogna distinguere la salute del figlio nascituro da quella della donna gestante. La legge non prevede un «diritto a nascere se non sani»: lo ha affermato in termini netti la giurisprudenza [1] a proposito del danno da nascita indesiderata. Ma in ogni caso il medico ha il dovere di informare la donna delle patologie riscontrate nel feto, proprio per consentirle di decidere se interrompere la gravidanza o proseguirla.

La casistica pratica è numerosa: ci sono malformazioni fetali evidenti, come la mancanza di una mano o di un altro arto, che comporteranno una disabilità permanente, ed altre, come la sindrome di Down, che potrebbero avere ripercussioni psicologiche e comportamentali. Ti segnaliamo subito che, ai fini dell’interruzione volontaria della gravidanza, la legge si concentra più sulla salute fisica e psichica della madre che su quella del nascituro: le patologie del feto che consentono l’aborto tardivo sono individuate dalla legge con riferimento al pericolo che potrebbe comportare alla donna incinta se portasse a termine quella gravidanza.

Ricordiamo preliminarmente, per evitare dubbi o fraintendimenti, che in Italia non è ammesso l’aborto eugenetico, cioè quello che tende ad eliminare i feti malati, o comunque “imperfetti”, prima che nascano, in modo da preservare la sanità della razza umana (come avveniva nell’antica Sparta o, più recentemente, nella Germania nazista): la legge sull’aborto [2] esordisce con il fondamentale principio secondo cui «lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio» e specifica che «l’interruzione volontaria della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite».

Quando si può abortire?

Dal 1978 in Italia l’aborto è legale. La legge [3] consente alla donna il diritto di abortire durante i primi 90 giorni di gravidanza per seri motivi di salute, economici, sociali o familiari. In questa fase la donna viene assistita dal suo medico di fiducia e da un consultorio, per aiutarla a trovare le possibili soluzioni ed a rimuovere, se possibile, le cause che porterebbero all’interruzione volontaria della gravidanza.

Oltre questo termine di 90 giorni, è ancora possibile l’aborto terapeutico, ma solo se la gravidanza o il parto mettono in grave pericolo la vita della donna, anche a causa della presenza accertata di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro. Per l’aborto tempestivo, quello compiuto entro i 90 giorni, basta un pericolo «serio» e non necessariamente per la salute, mentre per l’aborto terapeutico, effettuato dopo 90 giorni, il pericolo deve riguardare esclusivamente la salute della donna ed essere «grave». Ed è questo il profilo che ora esamineremo, illustrandolo anche con esempi concreti tratti dalla casistica giudiziaria.

Aborto per malformazioni del feto: è possibile?

Mentre entro i primi 90 giorni l’interruzione volontaria della gravidanza è ammessa per una pluralità di motivi, e non soltanto per lo stato di salute (quindi anche, ad esempio, per difficoltà familiari, psicologiche o lavorative), oltre tale termine la legge [4] ammette l’aborto solo in due ipotesi, e precisamente:

  • quando la gravidanza o il parto «comportino un grave pericolo per la vita della donna»;
  • quando siano «accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».

Come emerge dalla formulazione normativa, la legge ricollega le malformazioni del feto al grave pericolo per la salute della gestante, e questo rischio rileva non solo per l’insorgere di malattie fisiche ma anche per le ripercussioni di tipo psicologico che potrebbero derivare dalla nascita e crescita di un figlio non sano. In ciò sta la chiave di lettura del delicato argomento di cui ci stiamo occupando. La Corte di Cassazione [5] afferma da tempo che «le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano solo nei termini in cui possano cagionare il danno alla salute della gestante medesima, e non in sé e per sé considerate con riferimento al nascituro».

Quali malformazioni consentono l’aborto terapeutico?

La giurisprudenza italiana si è occupata in diverse occasioni delle malformazioni che consentono l’aborto terapeutico: le cause giudiziarie sorgono quando l’interruzione di gravidanza non viene praticata per vari motivi (i più comuni sono gli errori diagnostici che non riscontrano le patologie fetali e la mancata informazione ai genitori) e allora viene chiesto il risarcimento del danno al medico, ed alla struttura ospedaliera o sanitaria in cui opera. Ti parliamo ampiamente di questo aspetto nell’articolo “Risarcimento danno da gravidanza non interrotta“.

Passiamo ora alla casistica, con esempi concreti di malformazioni del nascituro che non erano state correttamente rilevate, così compromettendo la scelta della madre di interrompere la gravidanza. In alcune recenti occasioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto che:

  • la mancanza di una mano (circostanza emersa con un’ecografia morfologica compiuta dopo il 90° giorno di gravidanza) non è un’anomalia «rilevante» ai fini della compromissione della salute psico-fisica della madre [6];
  • la nascita di un bambino privo del piede sinistro e del terzo medio della gamba sinistra (le ecografie compiute durante la gravidanza non avevano evidenziato tali malformazioni) non è stata considerata tale da compromettere gravemente la salute psichica della madre, nonostante le fosse stata diagnosticata una depressione post partum [7];
  • l’assenza di entrambi gli arti superiori integra quelle «rilevanti anomalie e malformazioni del nascituro» idonee a determinare «un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, che legittimi l’eccezionale possibilità di farsi luogo, dopo i primi 90 giorni di gravidanza, alla relativa interruzione» [8];
  • un’infezione da citomegalovirus (una grave forma di herpes) diagnosticata solo al settimo mese di gravidanza, quando ormai era troppo tardi per intervenire essendo il feto dotato di vita autonoma, ha dato diritto al risarcimento dei danni ai genitori, essendo stato dimostrato che aveva provocato malformazioni nel neonato e che la madre avrebbe interrotto la gravidanza se ne fosse stata tempestivamente informata, in modo da evitare un grave pregiudizio per la sua salute [9];
  • per la nascita di un bambino affetto da sindrome di Down è stato escluso il risarcimento ai genitori, in mancanza della prova che la madre avrebbe abortito se durante la gravidanza fosse stata portata a conoscenza di tale malformazione [10];

Aborto non eseguito e danno da nascita indesiderata

A fattor comune in tutti questi casi che abbiamo elencato c’è il riconoscimento della giurisprudenza che, per praticare l’aborto terapeutico, non basta la presenza di una pur grave anomalia o malformazione fetale, ma è necessario che a causa di ciò la gestante incorra in un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, da accertarsi in concreto e caso per caso. Le Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza da cui siamo partiti [1], hanno affermato che non si può in linea generale «approdare ad un’elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione di ricorso all’aborto».

Tuttavia il medico che non abbia diagnosticato correttamente ed informato tempestivamente la gestante della presenza di malformazioni fetali e dei rischi conseguenti deve risarcire i danni derivati dalla mancata interruzione della gravidanza, e dunque dalla nascita indesiderata, se la donna riesce a dimostrare, anche con presunzioni, che avrebbe abortito per evitare un pregiudizio alla sua salute. Puoi approfondire questi aspetti leggendo l’articolo “Danno da nascita indesiderata: chi paga?“.

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Pubblicato : 2 Febbraio 2023 17:00