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Licenziamento ritorsivo: quando è valido

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(@angelo-greco)
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Come contestare un licenziamento per ripicca. Per essere nullo il licenziamento, la ritorsione del datore di lavoro deve essere il motivo unico e determinante da cui è scaturita la risoluzione del rapporto di lavoro.

Il datore di lavoro ha “il coltello dalla parte del manico”, si suole spesso dire quando si rinuncia a far valere un proprio diritto per timore di una ritorsione. Ma la rappresaglia, costituita da un eventuale licenziamento, sarebbe illegittima e priva di effetti. Tuttavia, in alcuni casi, il licenziamento ritorsivo è valido. E a chiarire tale aspetto è stata una recente pronuncia della Cassazione (Cass. ord. n. 741/2024).

Cerchiamo di fare il punto della situazione iniziando a definire i contorti di tale istituto e a comprendere quali tutele ha il dipendente.

Cos’è il licenziamento ritorsivo?

Il licenziamento ritorsivo si verifica quando il datore di lavoro risolve il rapporto di lavoro non già per una ragione obiettiva, ma come strumento di vendetta nei confronti del lavoratore per aver questi esercitato un proprio diritto, sgradito al datore stesso. Si tratta quindi di una reazione illegittima a un’azione legittima del lavoratore come la presentazione di un reclamo o di una denuncia contro il datore di lavoro, l’esercizio di un diritto sindacale o la richiesta di differenze retributive.

Cosa comporta un licenziamento ritorsivo?

Se il datore di lavoro dovesse licenziare il dipendente per ripicca, quest’ultimo potrebbe impugnare il provvedimento dinanzi al giudice e riottenere il proprio posto di lavoro. Difatti, il licenziamento ritorsivo è nullo, non produce cioè effetti. Il che significa che, in casi del genere, il giudice ordina la reintegra sul posto, oltre ovviamente al pagamento di tutte le retribuzioni arretrate.

Si tratta di una notevole tutela visto che, per gran parte dei licenziamenti illegittimi, è previsto solo il risarcimento del danno.

Quali sono le caratteristiche del licenziamento ritorsivo?

Il licenziamento ritorsivo si configura quando vi è una causalità diretta tra l’azione del lavoratore e la decisione di licenziamento. La giurisprudenza tende a valutare attentamente la tempistica e le circostanze del licenziamento, alla ricerca di elementi che possano dimostrare la natura punitiva della scelta del datore di lavoro.

In altri termini, affinché il licenziamento possa essere qualificato come ritorsivo e dichiarato nullo è necessario che esso sia stato determinato solo e unicamente da una condotta lecita del dipendente.

Come si dimostra un licenziamento ritorsivo?

Spetta al lavoratore dimostrare il nesso di causalità tra il suo comportamento lecito (ad esempio, un esposto alle autorità competenti) e la decisione del datore di lavoro di licenziarlo. Una volta fornite prove sufficienti, il datore di lavoro dovrà dimostrare che il licenziamento è stato determinato da ragioni legittime e non correlate all’azione del lavoratore.

Quando il licenziamento ritorsivo è legittimo?

Potrebbe però succedere che il datore di lavoro, pur animato da astio e rancore nei confronti del dipendente, decida di punirlo per una condotta illecita da questi effettivamente posta in essere. In tal caso, il fatto che la punizione sia più grave della condotta, non rende nullo il licenziamento ma tutt’al più potrà determinare un risarcimento del danno (si pensi a un licenziamento intimato in tronco – ossia per giusta causa – anziché con il periodo di preavviso – ossia per giustificato motivo soggettivo). Tale è stato il chiarimento della Cassazione.

Affinché si possa parlare di licenziamento disciplinare è necessario l’accertamento di uno stretto rapporto di “causa-effetto”: la condotta lecita del dipendente deve essere l’esclusivo motivo scatenante del licenziamento. Non devono cioè concorrere altri fattori ad influenzare la scelta del datore di risolvere il contratto.

Secondo la Corte, poiché il licenziamento per ritorsione costituisce la reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, quando li licenziamento sia intimato a fronte di una condotta inadempiente del lavoratore (ossia per un illecito disciplinare), l’eventuale sproporzione della sanzione espulsiva, se pure può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente come ritorsivo il licenziamento stesso [1].

Come si tutela il lavoratore da un licenziamento ritorsivo?

Il lavoratore può tutelarsi avvalendosi di strumenti giuridici come il ricorso al giudice del lavoro. È fondamentale agire tempestivamente, poiché i termini per impugnare il licenziamento sono perentori.

La prima cosa da fare è inviare una diffida stragiudiziale. Si tratta di una comunicazione al datore di lavoro con cui si manifesta l’intenzione di opporsi al licenziamento. Tale lettera – tramite PEC o raccomandata – va inviata entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento.

In alternativa, il lavoratore che intenda contestare un licenziamento ritorsivo ha 60 giorni di tempo dalla ricezione della comunicazione di licenziamento per avviare la procedura di conciliazione presso la Direzione Territoriale del Lavoro.

Una volta effettuato questo passaggio, il lavoratore ha ulteriori 180 giorni per depositare il ricorso presso il tribunale competente. Questo termine di 180 giorni decorre dal giorno successivo a quello in cui è stata inviata la diffida o si è conclusa la procedura di conciliazione, indipendentemente dal suo esito.

Il deposito del ricorso deve essere effettuato presso la cancelleria del tribunale del lavoro competente per territorio. Il ricorso dovrà essere redatto da un avvocato e dovrà contenere tutte le motivazioni che si ritengono idonee a dimostrare il carattere ritorsivo del licenziamento, oltre a tutte le prove documentali pertinenti.

Dopo il deposito del ricorso, il tribunale fisserà una data per l’udienza. Durante l’udienza, il giudice valuterà le prove e le argomentazioni presentate da entrambe le parti e deciderà sull’esistenza o meno del licenziamento ritorsivo.

In caso di esito positivo per il lavoratore, il giudice potrà ordinare il reintegro nel posto di lavoro e il pagamento di un’indennità risarcitoria. In caso di esito negativo, il lavoratore può valutare l’opportunità di presentare un appello.

 
Pubblicato : 10 Gennaio 2024 10:45