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Le parole legali che usiamo in maniera sbagliata

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(@angelo-greco)
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Gli errori sui termini legali: ecco il significato corretto che ha la terminologia giuridica.

Il lessico legale è caratterizzato da termini tecnici che, nel linguaggio comune, vengono spesso “tradotti” con parole semplici. Ma queste non sempre colgono l’essenza dell’originale e, a volte, corrono il rischio di creare equivoci.

In questo articolo vedremo quali sono gli errori più frequenti che la gente commette quando tenta di approcciarsi ai concetti giuridici. Sono chiaramente errori che, alla fine, vengono “perdonati” proprio per via dell’atecnicismo dell’uomo comune. Ma procediamo con ordine.

Vigili / Polizia locale

Spesso si usa il termine vigile urbano per riferirsi agli agenti che controllano il traffico o che, comunque, alle dipendenze del Comune, sbrigano questioni legate al territorio (edilizia, verifiche di residenza, ecc.). In realtà, i “vigili urbani” non esistono più: dal 1986 esistono infatti i corpi di Polizia locale.

Gli agenti di Polizia Locale godono delle medesime qualifiche delle forze di Polizia statali essendo agenti ed ufficiali di Polizia giudiziaria e agenti di Pubblica Sicurezza. Contrariamente allo stereotipo comune, non si occupano solo del rispetto del Codice della Strada e di multare gli automobilisti indisciplinati ma svolgono attività di Polizia Giudiziaria, pubblica sicurezza, polizia amministrativa, ambientale, commerciale ed edilizia.

Compromesso / Contratto preliminare

Con la parola compromesso si intende comunemente il contratto con cui venditore e acquirente si impegnano a stipulare un successivo atto di compravendita immobiliare dinanzi a un notaio. In realtà, il termine giuridico corretto è contratto preliminare, per essere distinto dal “contratto definitivo” che è invece quello stipulato dinanzi al notaio e con il quale si trasferisce definitivamente la proprietà.

Nel gergo giuridico, il compromesso ha tutt’altro significato: è l’accordo, tra due parti firmatarie di un contratto, con cui si demanda la definizione di eventuali controversie non già al giudice del tribunale ma a un arbitro (una forma cioè di giustizia privata).

Rogito / Atto pubblico

Sempre per rimanere in tema di contratti, nel gergo comune ciò che il codice civile chiama «atto pubblico» viene denominato «rogito». Si tratta del documento redatto da un notaio e che si contrappone alla «scrittura privata». Quest’ultima, invece, viene stipulata direttamente dalle parti, senza l’assistenza di un pubblico ufficiale.

La differenza è netta nel caso in cui una delle parti affermi che la firma non è sua: se si tratta di un atto pubblico, spetta a chi contesta dimostrare la falsità dell’atto; invece se si tratta di una scrittura privata, spetta alla controparte la prova della sua autenticità.

Multa / Sanzione amministrativa

Spesso chiamiamo indistintamente «multa» tutte le sanzioni di tipo pecuniario (quelle cioè che impongono il pagamento di una somma di denaro), in particolare quelle derivanti dalle infrazioni del codice della strada. Invece, per la legge, le multe sono solo quelle conseguenti alla commissione di un reato. La multa, in termini tecnici, è dunque una punizione di tipo penale.

Invece i verbali della polizia stradale o municipale determinano tecnicamente una sanzione amministrativa: è questo il termine più corretto.

Reato penale

Restiamo in materia penale. Un errore che spesso si commette è quello di dire reato penale. A dire il vero non si tratta di un errore ma di un pleonasmo, ossia di una inutile ripetizione. E questo perché un reato non può che essere “penale”. Non esistono reati amministrativi o civili. Né si può dire che l’aggettivo è un semplice rafforzativo perché non avrebbe alcun senso. Volendo usare una metafora, dire “reato penale” è un po’ come parlare di “triangolo triangolare”.

Dire «reato penale» è come ripetere, dunque, due volte lo stesso concetto, attribuendo al concetto un aggettivo qualificativo che è già insito nella sua definizione e di cui non ci sarebbe bisogno.

Tasse / Imposte

Come si chiamano le somme che paghiamo allo Stato ogni anno? Tasse. Così almeno risponderebbe una persona qualsiasi. Invece si chiamano imposte o, a tutto voler concedere, tributi. Per comprendere la differenza tra questi concetti dobbiamo fare una premessa.

I tributi, categoria generale, si distingue in due sottocategorie:

  • le imposte
  • le tasse.

Le imposte sono le somme che paghiamo allo Stato per il solo fatto di avere un reddito, ossia una capacità contributiva. Le paghiamo quando facciamo la dichiarazione dei redditi (imposte dirette, come l’Irpef) o quando acquistiamo qualcosa (imposte indirette, come l’Iva).

Poi ci sono le somme che versiamo a fronte di un servizio specifico che riceviamo dallo Stato o da un’altra pubblica amministrazione: tali somme servono a coprire i costi di tale servizio. Un esempio è la Tari, ossia la tassa sulla raccolta dei rifiuti urbani. Qui c’è una controprestazione: il cittadino paga qualcosa ma riceve in cambio una specifica prestazione. Questa corrispondenza invece, almeno in forma diretta, non c’è per le imposte.

Transizione / Transazione

Quante persone, al posto di «transazione», dicono «transizione». La transazione non è altro che un accordo che pone fine a una lite in atto o solo potenziale. È un vero e proprio contratto che si chiude con reciproche concessioni. La transizione invece non è neanche un concetto legale: significa, secondo il nostro vocabolario, “passaggio” da uno stato, condizione o situazione a un’altra.

Denuncia / Querela

Un’altra tipica improprietà linguistica coincide con l’uso denuncia. Quando andiamo dai carabinieri o dalla polizia dichiamo che facciamo una denuncia, ma non è sempre così.

Anche se l’atto, nella sostanza, è identico, c’è una importante differenza tra denuncia e querela.

La denuncia si presenta per i reati procedibili d’ufficio, quelli cioè più gravi, e quindi a prescindere dalla segnalazione di un cittadino. Ad esempio il cittadino può denunciare un omicidio, ma anche se non lo facesse la polizia potrebbe avviare da sola le indagini. La denuncia si risolve quindi in una sorta di segnalazione e può essere presentata senza termini ultimi, salva sola la prescrizione del reato.

La querela invece si presenta per i soli reati procedibili su richiesta di parte, ossia della vittima e, quasi sempre, ha un termine di 3 mesi per il suo deposito. Se non c’è la domanda della parte offesa, tali reati – che sono meno gravi dei precedenti – non possono essere perseguiti.

Atto del tribunale / Citazione

Spesso, quando si riceve la notifica di una citazione tramite l’ufficiale giudiziario, si dice di aver ricevuto un atto del tribunale solo perché l’intestazione di tale documento reca la scritta «Tribunale di…» (con l’indicazione del luogo). Questo perché è compito dell’avvocato indicare alla parte convenuta il giudice presso il quale presentarsi. Ciò però non significa che l’atto sia stato notificato dal tribunale stesso. Si tratta invece di un atto redatto e notificato dall’avvocato della parte.

Rateizzazione / Rateazione

Quando si chiede una dilazione del pagamento delle cartelle esattoriali, l’uomo medio dice “rateizzazione”. Questo termine non è sbagliato in italiano ma la parola corretta è rateazione.

Decadenza / Prescrizione

I termini «decadenza» e «prescrizione» sono profondamente diversi per il diritto mentre chi non è un esperto li usa per indicare lo stesso concetto: quello di “scadenza” di un atto, un diritto o un termine.

Senza entrare nel tecnico che richiederebbe un lungo approfondimento, basti sapere che il termine di prescrizione può essere sospeso o interrotto per determinate cause e così ricomincia a decorrere da capo; questa possibilità invece non sussiste per la decadenza. La decadenza, una volta formatasi, impedisce per sempre al titolare di un diritto di esercitarlo. Tanto per fare un esempio, il diritto di credito si prescrive, di solito, in dieci anni ma se, prima di tale termine, il creditore invia un sollecito di pagamento, la prescrizione si azzera e riparte da capo.

Erede / Legatario

Il concetto di erede e legato vengono spesso confusi. Di solito l’erede è colui che subentra in una quota del patrimonio del defunto (ad esempio il 33%), mentre il legatario riceve un bene specifico. L’erede deve accettare l’eredità e, in conseguenza di ciò, subentra anche nei debiti del defunto. Il legatario non deve dare l’accettazione (ma può rinunciare al diritto che gli viene attribuito) e non risponde dei debiti del de cuius.

 
Pubblicato : 5 Marzo 2024 07:30