In maternità si può partecipare ai concorsi?
Diritti delle lavoratrici in stato di gravidanza o in puerperio: divieto di discriminazioni nell’accesso al mondo del lavoro e nelle selezioni interne per progressioni di carriera.
Parità tra i sessi: questa sconosciuta, non pervenuta, disapplicata e travagliata norma, che stenta a farsi strada come una nave in mezzo ai ghiacci. Il divieto di discriminazioni di genere è un bellissimo principio, in vigore da decenni, ma incontra continuamente ostacoli per trovare applicazione pratica, come molte donne sanno. I nodi vengono al pettine soprattutto quando una donna in stato di gravidanza o in maternità vuole partecipare ai concorsi.
Gli impedimenti fattuali e talvolta anche giuridici alle possibilità di partecipazione di una lavoratrice madre ad un concorso pubblico o privato o ad una selezione interna per la progressione di carriera sono numerosi, ma la legge e la giurisprudenza li dichiarano quasi sempre illegittimi, come dimostra una recentissima sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro [1], che ha dichiarato «una forma indiretta di discriminazione» in una procedura concorsuale che non aveva riconosciuto ad una candidata il punteggio per l’anzianità maturata durante il periodo di astensione obbligatoria per maternità.
Pari opportunità tra uomini e donne: cosa dice la legge
L’art. 51 della Costituzione dispone che: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».
A parte alcune norme di settore varate negli anni Settanta, dall’entrata in vigore della Costituzione ci sono voluti quasi 50 anni per approvare, nel 1996, il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna [2] che nel primo articolo enuncia un principio fondamentale: «la parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione».
Divieto di discriminazione delle donne nei concorsi
Per quanto riguarda i concorsi e le progressioni in carriera, un’altra norma del Codice delle pari opportunità [3] dispone che: «È vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma, o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale».
Discriminazione delle lavoratrici in stato di gravidanza o madri
Vista la portata perentoria e immediatamente precettiva di queste norme – che riguardano tutti i datori di lavoro, pubblici e privati – sembra evidente dover riconoscere, come afferma da tempo la giurisprudenza amministrativa [4], che «la lavoratrice madre non debba subire alcuna conseguenza sfavorevole per il fatto di trovarsi in stato di gravidanza» durante lo svolgimento di una procedura concorsuale per l’accesso ad un impiego pubblico. Sono indubbiamente vietate, quindi, tutte le esclusioni e penalizzazioni basate sulla gravidanza e maternità della donna lavoratrice.
L’unico accorgimento pratico – o, se si vuole, una piccola “barriera”, che comunque non appare di per sé discriminatoria [5] – sta nel fatto che a tutt’oggi alcune Pubbliche Amministrazioni e imprese private chiedono alle lavoratrici in stato di gravidanza che vogliono partecipare a prove concorsuali e selezioni durante tale periodo di esibire un certificato medico per attestare che tale partecipazione non comporta pregiudizio alla salute della donna e del nascituro. Per evitare in radice ogni problema e contestazione di trattamento discriminatorio, però, è opportuno prevedere in partenza dei correttivi: quindi il bando di concorso dovrebbe consentire a queste donne di poter posticipare lo svolgimento delle prove concorsuali, specialmente se si tratta di prove fisiche o attitudinali.
Discriminazione lavoratrici madri: quando si verifica
Nonostante le norme che abbiamo esaminato e la rigorosa interpretazione giurisprudenziale di tali principi, le lacune che penalizzavano le donne, e in particolare le aspiranti lavoratrici madri nei concorsi, pubblici o privati, rimanevano evidenti. Così Nel 2021 il Codice delle pari opportunità è stato modificato da una nuova legge [6], che ha introdotto alcune misure per eliminare o quantomeno attenuare e ridurre le discriminazioni e disparità esistenti tra uomini e donne nel mondo del lavoro, come la certificazione della parità di genere. Questo provvedimento, però, riguarda principalmente chi ha già un lavoro e deve essere garantito nei propri diritti a prescindere dal sesso e dalle condizioni di gravidanza, di maternità e di cura della famiglia che coinvolgono la maggior parte delle donne.
Ancora più a monte c’è il concetto di discriminazione sul lavoro, che è illegittima, e si attua quando il datore di lavoro, o l’amministrazione che indice il bando di concorso, pone in essere una condotta penalizzante per le donne in quanto stabilisce un diverso trattamento in base al sesso, all’età, alle esigenze familiari, allo stato di gravidanza e di maternità e alla genitorialità in genere. Queste discriminazioni possono verificarsi tanto in fase di accesso al mondo del lavoro – e quindi al momento della partecipazione al concorso per l’assunzione – quanto nei meccanismi di avanzamento, di progressione di carriera e di congedo.
Secondo la giurisprudenza, possono esserci due tipi di discriminazioni, entrambe illecite:
- discriminazioni dirette, quando un candidato viene escluso da una procedura concorsuale o da una selezione aziendale interna per ragioni connesse al genere, e dunque specialmente in quanto donna, o quando riceve un trattamento penalizzante rispetto a quello riservato ad un altro soggetto in condizioni analoghe;
- discriminazioni indirette, ravvisabili in qualunque disposizione o prassi aziendale e datoriale che tende a porre i candidati in una posizione di svantaggio rispetto a quelli appartenenti all’altro genere, così di fatto penalizzando le lavoratrici (o aspiranti tali) rispetto ai lavoratori di sesso maschile.
Mancato riconoscimento dell’anzianità maturata in maternità
La discriminazione indiretta è la forma più subdola, perché è la meno evidente: spesso occorre ricorrere al giudice per far annullare i provvedimenti illegittimi, come è avvenuto nella recente sentenza che abbiamo menzionato in apertura e che ti riportiamo per esteso nel box al termine dell’articolo [1]: qui una lavoratrice in congedo obbligatorio per maternità era stata discriminata in via indiretta durante l’attribuzione dei punteggi preselettivi di valutazione, che non avevano tenuto conto, ai fini dell’anzianità di servizio maturata, della «pregressa esperienza» che la donna aveva conseguito durante il periodo di assenza dal lavoro per gestazione.
Perciò la Corte ha ribadito che la parità di trattamento e di opportunità tra uomini e donne va garantita «fin dalla fase dell’accesso al lavoro», anche a prescindere dal fatto che la lavoratrice, mentre era in maternità, non aveva reso alcuna prestazione lavorativa: per evitare discriminazioni, l’esperienza pregressa da valutare ai fini dell’assunzione o della progressione in carriera deve comprendere anche i periodi di congedo per maternità, che per legge devono anche essere computati nell’anzianità di servizio.
Approfondimenti
- Si può rifiutare di assumere una donna incinta?;
- Si può escludere una donna in gravidanza da un concorso?;
- Disparità di trattamento bando di concorso: ultime sentenze.
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