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Frase offensiva al «capo»: c’è licenziamento?

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(@adriano-spagnuolo-vigorita)
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Organizzare il lavoro di tante persone è tutt’altro che un giuoco da ragazzi, poiché occorre tener conto di diversi fattori, due dei quali in nettissima contrapposizione tra loro: il riferimento è alla continuità da garantire al funzionamento della macchina aziendale ed ai diritti dei singoli lavoratori.

Nel presente articolo, premessa una breve disamina in merito alle caratteristiche del rapporto di lavoro dipendente ed all’istituto del licenziamento per giusta causa, si chiarirà se quest’ultimo sia o meno irrogabile nei confronti di quel lavoratore che, malgrado il suo impegno costante ed instancabile, abbia proferito ad indirizzo del suo superiore gerarchico una frase apparentemente ingiuriosa.

Il lavoro dipendente: quali doveri comporta?

L’articolo art. 2094 del Codice Civile traccia i connotati del prestatore di lavoro – e, indirettamente, quelli del datore -, definendo tale quel soggetto che, in cambio di un corrispettivo (la «retribuzione»), si obbliga a svolgere una determinata attività alle dipendenze e sotto la direzione di un’altra persona (che può essere un privato, un’azienda od una Pubblica Amministrazione).

La Costituzione Repubblicana, in virtù del principio di solidarietà di cui all’art. 2, contiene una serie di previsioni tese a preservare la dignità di chi compie sovente sforzi immani per assicurarsi il sostentamento quotidiano: tra queste, assume particolare rilevanza l’art. 36 Cost., in ossequio al quale il prestatore di lavoro può vantare il diritto ad una retribuzione che sia proporzionata vuoi alla qualità, vuoi alla quantità del lavoro prestato in favore d’altri, dimodoché sia garantita, a lui ed alla sua famiglia, una vita dignitosa.

Leggendo in combinato disposto la statuizione richiamata poco fa e l’art. 2094 c.c., risulta più che agevole avvedersi che il contratto di lavoro è sinallagmatico (cioè, è a prestazioni corrispettive): infatti, se, da una parte, il lavoratore deve impegnarsi al massimo nello svolgimento della prestazione dall’altro la controparte è tenuta sia a retribuirlo sia a salvaguardarne l’integrità fisica e la dignità morale.

Cos’è l’insubordinazione?

Tra i doveri del lavoratore riveste un ruolo pregnante quello di obbedienza, il quale, secondo l’articolo 2104 del Codice Civile, si sostanzia nell’eseguire tutto quanto il datore ed i superiori gli ordinano, sempreché siano conformi al disposto delle leggi: esemplificando, Daniela, assunta come scaffalista presso il maxistore di alimentari diretto da Salvatore, sarà sì tenuta ad osservare le disposizioni che questi gli impartisce (ad esempio, il sistemare le buste di latte nel frigo), ma ben potrebbe rifiutarsi, qualora le venisse espressamente comandato, di abradere le scadenze dei prodotti e modificarle col pennarello indelebile per trarre in inganno la clientela.

Il non ottemperare a tale obbligo, comporta l’irrogazione, nei confronti del prestatore, di una sanzione disciplinare (che può consistere, nei casi di maggior gravità, nel licenziamento per giusta causa ex art. 2119) [1].

Al dipendente-modello scappa una rispostaccia: è legittimo il recesso datoriale? 

Volendo aderire ad una massima proverbiale che si tramanda da generazioni, se una parola è poca…due son troppe: la giurisprudenza più nutrita ha, invero, precisato che l’insubordinazione non si limita al disobbedire ai propri superiori (rifiutando, ad esempio, di svolgere un compito da questi affidato), ma si estende al rispetto del prestigio e dell’onore dei medesimi [2]. Volendo aderire a tale orientamento, la frase ingiuriosa verso il proprio responsabile potrebbe compromettere il legame fiduciario che deve necessariamente intercorrere tra il datore ed i subalterni, anche perché – precisa la Suprema Corte – la reputazione dell’azienda riposa anche sull’autorevolezza di cui godono dirigenti e quadri.

Tuttavia, non sempre il lavoratore che apostrofa il «capo» con epiteti al pepe è licenziabile per giusta causa: difatti, la Corte Suprema di Cassazione ha sottolineato che, laddove un dipendente ligio al dovere, ritenendo di esser stato vittima di un’ingiusta delazione, proferisca qualche parolina di troppo nel relazionarsi al superiore, sarà passibile di un provvedimento disciplinare più mite [3].

In poche parole, l’insulto una tantum non integra alcun’ipotesi di insubordinazione grave.

 
Pubblicato : 22 Febbraio 2024 06:03