È reato raccomandare?
Un viaggio tra le pieghe della legge per capire quando la raccomandazione o la semplice segnalazione di un parente o un amico può costituire un illecito.
La raccomandazione: un termine spesso citato in Italia per giustificare molte esclusioni da pubblici concorsi. Di certo, il fatto di avere un rapporto di parentela o amicizia con qualcuno può determinare, a volte anche inconsciamente, una preferenza. Ma affinché questa preferenza assurga al rango di vero e proprio illecito è necessario che superi determinati limiti. Il semplice fatto di riferire a una commissione giudicatrice di “auspicarsi” che a vincere sia un proprio congiunto non può essere vietato.
Bisogna allora chiedersi se è reato raccomandare qualcuno e quali devono essere le modalità della condotta per ricadere nel penale. Alla raccomandazione può equipararsi la semplice segnalazione e qual è la differenza tra l’assunzione in un ufficio pubblico e quella in un posto di lavoro privato? A commettere il reato è solo colui che raccomanda o anche chi viene raccomandato?
Sorprendentemente, la Cassazione ha in molti casi giudicato che certi atti di raccomandazione non fossero reato. Per esempio, se un sindaco sollecita una commissione senza usare propriamente i suoi poteri per influenzarla, non c’è reato. E ci sono altri casi simili.
Vediamo allora cosa dice la Suprema Corte in merito e quando, pur in presenza di una raccomandazione, non si può parlare di condotta vietata.
Quando la raccomandazione diventa abuso d’ufficio
La raccomandazione solleva spesso polemiche e indignazione, soprattutto quando persone spendono tempo e impegno per ottenere una posizione, per poi vederla assegnare a qualcuno raccomandato. Ma in realtà non sempre raccomandare qualcuno è reato: tutto dipende dalla modalità con cui la raccomandazione viene portata a termine.
Il primo caso che viene in rilievo è quando la condotta integra l’abuso d’ufficio.
L’art. 323 del cod. pen. definisce l’abuso d’ufficio come il comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, violando le norme o omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale oppure arreca ad altri un danno ingiusto.
Come viene punito l’abuso d’ufficio? Con la reclusione da uno a quattro anni.
Affinché vi sia abuso d’ufficio è necessario che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio utilizzino i propri poteri per favorire l’assunzione o la selezione di un terzo.
In altri termini, l’abuso deve realizzarsi attraverso l’esercizio del potere per scopi diversi da quelli propri della funzione attribuita.
Su queste basi, la condotta del pubblico funzionario che effettua “raccomandazioni” o “sollecitazioni” su altri pubblici ufficiali non integra alcun reato quando questi ultimi sono liberi di aderirvi o menosecondo il loro personale apprezzamento.
Affinché scatti l’abuso d’ufficio sono necessari ulteriori comportamenti positivi o costrizioni che abbiano efficacia determinante sulla condotta altrui.
La Cassazione ha evidenziato che l’articolo 323 cod. pen., prevedendo che l’abuso di ufficio debba essere commesso nello svolgimento delle funzioni o del servizio, circoscrive la punibilità delle condotte abusive alle sole condotte realizzate dal pubblico funzionario nell’ambito della sua attività funzionale (Cass. sent. n. 40428/2023).
È, dunque, necessario che la condotta sia realizzata attraverso l’esercizio del potere pubblico. Quando il pubblico ufficiale agisce del tutto al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni non è configurabile il reato di abuso di ufficio.
La fattispecie dell’abuso di ufficio non contempla quelle forme di abuso realizzabili dal funzionario senza servirsi in alcun modo dell’attività da lui svolta, ossia mediante il semplice sfruttamento della sua qualifica, della sua posizione o del proprio potere di influenza.
Facciamo un esempio. Il semplice fatto di riferire all’addetto alla selezione di esami che, tra i candidati, c’è il proprio figlio, chiedendogli un occhio di riguardo non è reato. Difatti non c’è un abuso del proprio ufficio, ossia della funzione ricoperta dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio. Difatti il commissario è resta libero di accettare la segnalazione o meno. Ma se il capo ufficio dovesse “ordinare” a un sottoposto di far vincere un determinato candidato, pena degli effetti sulla carriera, allora si avrebbe un abuso e dunque la raccomandazione diventerebbe reato.
È dunque reato raccomandare qualcuno utilizzando indebitamente le proprie prerogative per manipolare le selezioni o i concorsi. Tuttavia, semplicemente segnalare un candidato a terzi non costituisce reato. Se, ad esempio, un carabiniere tentasse di influenzare un processo di assunzione minacciando azioni punitive nel caso in cui sua figlia non fosse assunta, ciò potrebbe costituire un abuso d’ufficio.
In sintesi, per non commettere reato in una raccomandazione basterebbe, secondo la Cassazione, non agire in modo imperativo e non ostentare l’esercizio dei propri poteri come arma di ritorsione su chi deve decidere se preferire o meno un candidato.
Quando la raccomandazione si traduce in corruzione o concussione?
La raccomandazione diventa corruzione quando si ottiene l’assunzione di chi è stato raccomandato a fronte di un pagamento o comunque del compimento di un atto altrimenti non dovuto (ad esempio una concessione edilizia).
La stessa regola vale per la concussione: se un funzionario pubblico accetta denaro per compiere un’azione che fa parte delle sue responsabilità ufficiali, si configura il reato. Ad esempio, se un impiegato accetta una mazzetta per approvare un’assunzione meritata, la raccomandazione integra un reato.
Quando passare le tracce e le soluzioni del concorso è reato
Raccomandare è reato, in particolare quello di «utilizzazione dei segreti d’ufficio», quando vengono fornite segretamente informazioni o soluzioni che potrebbero dare un vantaggio ingiusto a un candidato durante un concorso o una selezione.
La raccomandazione nel settore privato è punita?
Le raccomandazioni sono vietate solo quando si ha a che fare con posti all’interno della pubblica amministrazione. L’articolo 97 della Costituzione stabilisce infatti che ai posti pubblici si accede solo tramite concorso per garantire l’efficienza e l’imparzialità della P.A. Dunque, raccomandare una persona o la promozione di qualcuno nel settore privato non è mai reato visto che il datore di lavoro ha la più ampia libertà di preferire un soggetto a un altro, purché rispetti le regole che vietano le discriminazioni di genere tra uomo e donna.
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