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Divisione immobiliare: serve il consenso dei coeredi?

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(@paolo-remer)
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Cosa succede se manca l’accordo sulla spartizione dei beni ricevuti in eredità: tutte le regole per stabilire a chi vanno case, altri fabbricati e terreni.

Spesso anche nelle migliori famiglie i figli cominciano a litigare quando i loro genitori non ci sono più. Il punto di contrasto è, ovviamente, quello della spartizione dei beni ricevuti in eredità. Finché si tratta di denaro o comunque di valori finanziari, come i titoli in deposito e le somme versate sul conto corrente del defunto, le quote sono comodamente divisibili, con una semplice operazione matematica, rispettando le proporzioni spettanti a ciascuno; ma il discorso cambia completamente quando in successione vi sono beni immobili.

Case, ville, terreni, negozi e magazzini possono essere eterogenei per tipologia, ubicazione, struttura, caratteristiche ed epoca di costruzione: dunque il loro rispettivo valore può essere notevolmente diverso. Un appartamento in città probabilmente vale molto di più di un vecchio rudere diroccato in campagna, così come un lotto di terreno edificabile è molto più appetibile di uno ad uso agricolo. Anche quando l’immobile caduto in eredità è uno solo si pongono grossi problemi, se si vuole evitare la paralizzante situazione di comunione forzata è dunque preferibile attribuire il bene ad un unico erede che diventerà proprietario esclusivo, dando un adeguato conguaglio in denaro agli altri eredi. Ma la procedura è complessa, e così ci si chiede se per la divisione immobiliare serve il consenso dei coeredi, oppure se ne può fare a meno.

La risposta, affermativa, è arrivata per bocca della Cassazione [1]: l’assegnazione dei beni immobili «non comodamente divisibili» è subordinata al consenso dei coeredi, che deve essere espresso nel corso della procedura di divisione giudiziale della comunione ereditaria domandata da qualcuno di essi. Ma attenzione: se i coeredi non riescono a raggiungere un accordo su questo punto essenziale, il giudice non può far altro che disporre la vendita dei beni all’asta, e a quel punto gli eredi si soddisferanno pro-quota sul ricavato monetario ottenuto: nessuno di essi riceverà in assegnazione il bene. Dunque, occorre più tempo (la procedura giudiziaria è piuttosto lunga), bisogna sostenere maggiori spese (queste cause costano) e probabilmente si otterrà minore soddisfazione, perché gli immobili di famiglia ereditati ma non divisi di comune accordo verranno alienati.

Scioglimento della comunione ereditaria

La comunione ereditaria sui beni del defunto si costituisce automaticamente quando più chiamati accettano l’eredità. A quel punto ogni coerede diventa titolare di una quota ideale dell’asse ereditario, in base alle proporzioni stabilite dalla legge o dettate nel testamento. Ad esempio: muore un padre, e i due figli, insieme alla madre superstite, ereditano un terzo dei beni ciascuno.

Volendo, questa situazione di comunione ereditaria può perdurare senza limiti di tempo, ma di solito, per evidenti motivi di praticità e convenienza, i coeredi preferiscono addivenire ad una divisione dei beni fra loro. Ciò avviene frazionando le parti in comunione in base alle quote rispettivamente spettanti a ciascuno dei coeredi, che così potrà diventare proprietario esclusivo della porzione che gli verrà attribuita.

Per arrivare a questo risultato – oltre alle indispensabili procedure tecniche per calcolare il valore delle quote, ad esempio periziando i beni immobili per attribuirgli il corretto valore di mercato e individuare le possibili ripartizioni – ci sono due strade giuridiche praticabili:

  • la divisione amichevole, o contrattuale, che si realizza mediante un accordo volontario fra tutti i coeredi (ricordiamo che il trasferimento della proprietà di beni immobili richiede necessariamente la forma scritta dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, perciò bisogna rivolgersi ad un notaio, anche per effettuare le successive formalità di trascrizione);
  • la divisione giudiziale, che viene disposta dal tribunale, se manca l’accordo unanime tra i coeredi sulle modalità di spartizione e di attribuzione dei beni in comunione. È proprio questa la procedura in cui si instaurano le maggiori frizioni causate dalla mancanza del consenso.

La divisione ereditaria

L’art. 713 del Codice civile stabilisce che «i coeredi possono sempre domandare la divisione». Ciò significa che si tratta di un diritto imprescrittibile e non soggetto ad alcun termine. Soltanto se qualcuno dei coeredi è minorenne, il testatore può disporre che la divisione non possa compiersi fino a quando l’ultimo nato sia diventato maggiorenne da almeno un anno. Il giudice, però, se ravvisa «gravi circostanze» può derogare a questa disposizione testamentaria.

Quando la divisione avviene per via giudiziale, sarà la sentenza, emessa all’esito di una causa civile (alla quale devono partecipare tutti i coeredi) a stabilire come il patrimonio del defunto sarà concretamente diviso, nel rispetto delle quote spettanti a ciascuno. Può accadere che nella ripartizione qualcuno riceva beni di maggior valore economico, e allora gli altri coeredi avranno diritto di ricevere da costui un conguaglio in denaro, nella misura stabilita dal giudice, per ristabilire le corrette proporzioni ereditarie.

A chi vanno i beni immobili divisi tra coeredi?

Per i beni immobili che risultano «non comodamente divisibili», l’art. 720 del Codice civile pone un importante regola: se, nonostante le difficoltà, essi andranno comunque divisi (avendo qualche coerede richiesto lo scioglimento della comunione con domanda di divisione giudiziale), e non può procedersi al loro frazionamento, «essi devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi, se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione. Se nessuno dei coeredi è a ciò disposto, si fa luogo alla vendita all’incanto».

Proprio la violazione di questa norma civilistica ha determinato l’intervento della Cassazione nella sentenza cui abbiamo accennato all’inizio: la Suprema Corte ha escluso che «i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dalla citata norma si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non ne abbia fatto esplicita richiesta, pur se titolare della maggior quota; analogamente, accertata la non comoda divisibilità di uno o più immobili ereditari, l’inclusione di essi nelle porzioni di più coeredi non può avere luogo se costoro non ne abbiano richiesta congiuntamente l’attribuzione, essendo in linea di principio vietato il c.d. raggruppamento parziale delle porzioni, cioè la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisca comunione fra gruppi di condividenti, allorché non vi sia il consenso di costoro».

Come afferma il Collegio, quando i coeredi domandano la divisione degli immobili, «la legge pone una preferenza in favore del titolare della maggior quota», ma ciò «non esclude che il giudice possa attribuire il bene ad altro coerede, titolare di una quota minore, quando ciò gli sembri più consono all’interesse di condividenti». E solo «in assenza di richieste di attribuzione, formulate dal singolo o da condividenti raggruppati, si apre inevitabilmente la via della vendita», che costituisce «l’ultima ratio», la soluzione estrema. Quindi, in estrema sintesi, i beni immobili difficilmente divisibili andranno, se possibile, in proprietà esclusiva al coerede con la quota maggiore, che però dovrà compensare gli altri dell’eccedenza ricevuta, oppure potranno essere attribuiti a quei coeredi che ne hanno domandato l’attribuzione congiunta; altrimenti, bisogna venderli all’asta, e tutti si soddisferanno sul ricavato in proporzione alle rispettive quote ereditarie.

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Pubblicato : 20 Dicembre 2022 07:45