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Depressione causa lavoro

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(@angelo-greco)
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Malattia professionale: la depressione può dar luogo a risarcimento solo se c’è la prova che dipenda dalle mansioni e dall’ambiente lavorativo o dalla condotta del datore di lavoro. 

In linea generale, la giurisprudenza ritiene risarcibile la depressione a causa del lavoro: risarcimento che grava a carico dell’Inail. Tuttavia, spetta al dipendente dimostrare che la malattia dipende dall’ambiente in cui opera e dalla sua nocività. A confermare la possibilità di ottenere l’indennizzo è stata più volte la Cassazione [1].

Ci sono alcune questioni da valutare sul punto. Analizziamole singolarmente.

La depressione può essere una malattia professionale?

Ci sono alcune attività lavorative che implicano, di per sé, un maggior rischio di contrarre specifiche malattie: è il cosiddetto rischio lavorativo proprio. L’insorgenza di una di queste patologie – elencate in apposite tabelle – consente al lavoratore di ottenere il risarcimento dall’Inail senza dover fornire la prova del fatto che essa derivi dall’attività svolta. Tutto ciò che occorre è dimostrare l’esistenza della sola malattia. Si parla, in questo caso, di malattie tabellate.

Tuttavia la Corte Costituzionale [2] ha detto che è possibile risarcire anche il cosiddetto rischio lavorativo improprio, quello cioè non strettamente insito nella prestazione lavorativa ma comunque collegato ad essa. È quindi possibile risarcire anche le patologie non inserite nelle tabelle; tuttavia, in tale ipotesi, il lavoratore non dovrà dimostrare solo l’esistenza della malattia professionale ma anche la dipendenza di essa dall’ambiente in cui svolge le proprie mansioni. Si tratta quindi di una prova più difficile ma non per questo impossibile.

La depressione rientra nella seconda categoria di malattie, le cosiddette “malattie non tabellate”. Ragion per cui, per ottenere il risarcimento per il danno biologico e morale da malattia professionale, che abbia causato un disturbo dell’adattamento con umore depresso ed ansia, è necessario dimostrare che tale situazione sia scaturita dall’attività lavorativa. 

La prova per ottenere il risarcimento per depressione sul lavoro

In quanto malattia non tabellata, la depressione per causa del lavoro comporta per il dipendente l’onere di dimostrare che essa dipenda dall’ambiente di lavoro. Come chiarito dalla Cassazione [3], incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di causa-effetto tra l’una e l’altra [3]. 

Se il lavoratore abbia fornito tale prova, il datore di lavoro che voglia scagionarsi da ogni responsabilità deve provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

Se risulta che la depressione sia conseguenza invece di uno stato patologico soggettivo del lavoratore, totalmente o in gran parte indipendente dall’ambiente lavorativo, non è possibile ottenere alcun risarcimento.

La prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell’ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità [4]. 

La depressione come conseguenza di un comportamento illecito del datore di lavoro

La depressione potrebbe però non essere conseguenza dell’ambiente di lavoro e del conseguente stress, ma di un comportamento illecito del datore di lavoro come ad esempio il mobbing, lo straining, il demansionamento o le continue condotte vessatorie che possono peraltro integrare il reato di maltrattamenti nei piccoli contesti aziendali.

In questi casi, oltre alla copertura dell’Inail, sussiste la responsabilità dell’azienda, tenuta al risarcimento del danno. In più, trattandosi di malattia conseguente alla condotta colpevole del datore di lavoro, non sussiste l’obbligo di rispettare il periodo di comporto: ciò significa che il dipendente potrebbe assentarsi anche per un periodo superiore a quello consentito dal contratto collettivo senza perciò perdere né il posto di lavoro, né il trattamento retributivo. 

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Pubblicato : 13 Ottobre 2022 08:00