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Danno da superlavoro: come si prova?

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(@paolo-remer)
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Il riparto dell’onere probatorio tra il lavoratore colpito da una malattia, come l’infarto, e l’azienda o ente di appartenenza: come si fornisce la dimostrazione del nesso causale.

Il lavoro è una componente fondamentale della vita, ma bisogna fare attenzione a non esagerare, altrimenti rischia di prendersela quasi tutta e, nei casi più gravi, di toglierla. Quando il carico di lavoro è eccessivo e la situazione dura a lungo, specialmente se i ritmi non sono intervallati dai necessari periodi di riposo e di ferie, possono insorgere gravi patologie a livello psicofisico, come lo stress da burnout o l’infarto.

Allora è forse troppo tardi per recuperare la salute, ormai compromessa, ma non per ottenere il risarcimento dovuto dal datore di lavoro che ha sottoposto il dipendente a una situazione insostenibile. Ma come si prova il danno da superlavoro? Una nuova ordinanza della Cassazione [1] ha dettato i criteri: si trattava proprio di un lavoratore infartuato, che attribuiva questo evento ai pesanti e continui turni di servizio svolti nel corso degli anni.

La posizione della Suprema Corte è in linea con i risultati dei più recenti e accreditati studi scientifici, come quelli dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro), che mostrano una diretta correlazione tra le malattie cardiovascolari e gli orari di lavoro svolti da coloro che ne sono colpiti.

Obblighi del datore di lavoro per la salute dei dipendenti

L’art. 2087 del Codice civile impone ad ogni imprenditore datore di lavoro di «adottare nell’esercizio dell’impresa» (vale a dire, in qualsiasi attività che coinvolge il lavoratore, da egli diretto e controllato) «le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore».

Il contenuto precettivo di questa ampia norma – che fonda la maggior parte delle richieste risarcitorie avanzate dai dipendenti che hanno svolto un superlavoro – è stato, poi, delineato e articolato nel Testo Unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro [2], che contiene le prescrizioni minuziose cui tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, devono adeguarsi, con le specificità previste per ciascun comparto (edilizia, agricoltura, trasporti, industria, pubblico impiego, commercio, servizi, ecc.).

Superlavoro: quali malattie e danni?

La violazione dei precetti imposti dalla normativa vigente per tutelare la salute dei lavoratori fa sorgere in capo al datore di lavoro una responsabilità per illecito contrattuale, dalla quale sorge l’obbligo di risarcire i danni. Non è esclusa neppure la responsabilità extracontrattuale, per altri fatti illeciti e costituenti reato, che sorge, ad esempio, quando un’impresa sfrutta la manodopera e sottopone a turni massacranti i lavoratori assunti in nero, privandoli anche del necessario riposo.

Tra le varie voci di danno risarcibile che entrano in gioco – a partire dal danno biologico, consistente nella lesione della salute, e fino ai danni morali – c’è quella specifica del danno da usura psicofisica, che viene riconosciuto non solo nei casi di lavoro usurante e protratto nel tempo, che provoca una malattia professionale, ma anche quando il dipendente ha svolto lavoro straordinario oltre i limiti stabiliti dalla legge. E qui siamo molto vicini alle situazioni di cui ci stiamo occupando, perché il carico di lavoro eccessivo si determina soprattutto in termini di tempo, anziché di intensità delle prestazioni, in quanto il superlavoro provoca spesso uno stress che può sfociare nel grave esaurimento nervoso chiamato burnout o può causare malattie anche letali, come l’ictus e l’infarto.

Prova del superlavoro, della malattia conseguente e del danno

Secondo la Cassazione, tutte le malattie, di natura fisica o psichica, che risultano riconducibili al «rischio del lavoro» – comprendente non solo l’esecuzione materiale delle prestazioni, ma anche l’organizzazione del lavoro e il suo ambiente – sono indennizzabili dall’Inail, nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria, e risarcibili dal datore di lavoro responsabile.

Ma – e qui viene il punto di cui ci stiamo occupando – per essere effettivamente risarciti bisogna sempre dimostrare la connessione tra la patologia che ha colpito il dipendente (da accertare con gli ordinari criteri medico-legali, a partire dai certificati di diagnosi) e il lavoro svolto, ossia, nel nostro caso, il superlavoro che ne ha provocato l’insorgenza.

Superlavoro: riparto dell’onere probatorio tra lavoratore e datore

Vediamo come si adempie a questo essenziale onere probatorio, che, se non viene rispettato, preclude il risarcimento al lavoratore colpito da una qualsiasi malattia, fisica o psicologica, derivante dal superlavoro. La nuova ordinanza della Cassazione che ti abbiamo anticipato all’inizio [1] ha stabilito questa regola di riparto dell’onere probatorio:  il dipendente deve provare il carico di lavoro eccessivo e la successiva insorgenza della malattia diagnosticata, mentre il datore, per discolparsi, deve dimostrare che il ritmo dell’attività lavorativa era, invece, normale e adeguato, dunque non tale da pregiudicare la salute.

In particolare, secondo la Suprema Corte il lavoratore al quale è stata richiesta una prestazione lavorativa «eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi» – appunto, la condizione di superlavoro – è tenuto ad «allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole».

Se il dipendente fornisce tale prova, il datore di lavoro, per esimersi dalla responsabilità risarcitoria, dovrà «dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile». È la cosiddetta «prova liberatoria», che può verificarsi, ad esempio, quando c’è un “danno da stress lavoro correlato” per il quale non è chiaro se la patologia sia una diretta causa, o concausa, della situazione di superlavoro o non dipenda, invece, da altri fattori indipendenti.

A tal proposito la Cassazione ha sancito il seguente principio di diritto: «in tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore».

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Pubblicato : 30 Novembre 2022 08:00